giovedì 4 ottobre 2018

Dio sceglie tutti?


 Dio sceglie tutti?

Anna: Nel mondo ci sono tre categorie di persone: quelli che hanno la fede; quelli che non si pongono il problema dell’esistenza di Dio e quelli che vorrebbero sentire questa chiamata interiore, ma non la sentono. Che cosa vuol dire? Che non hanno la forza di farsi sentire da Dio o che Dio è sordo, disattento, troppo occupato a gestire l’Universo per rispondere? Oppure, più semplicemente, che Dio non esiste perché è soltanto una nostra creazione, la proiezione di un nostro desiderio spirituale, un nome per coprire un vuoto che ci spaventa?

Thomas: Mentre tu dici: “Non sento, non credo”, Dio in quel momento ti parla, ascoltalo! Tutti siamo uomini e donne di poca fede. Non c’è soluzione di continuità fra il poco credere e il molto credere, perché la fede può andare all’infinito, è un atto che punta in alto, all’Assoluto, senza raggiungerlo mai. C’è chi rifiuta la dimensione del mistero ed evita il rischio di affidarsi all’invisibile, ma penso che siano pochi, un caso limite. Una persona che crede si pone sempre la questione della fede. Più si crede, più si dubita, si potrebbe dire.

Anna: Ho sempre pensato il contrario. Più si crede, più si è certi della propria fede. I cattolici e i protestanti dicono: “Abbi fede!”.Yogananda amava ripetere: “Fate l’esperienza della fede”.[1]

Thomas: È quello che sto dicendo. La certezza della fede non è una certezza matematica né morale. Non ha niente in comune con la certezza filosofica, ma è qualcosa che ci rende capaci di rimettere tutto in discussione, al fine di crescere nella fede.

Anna: Ma è Dio che sceglie gli uomini o sono gli uomini che scelgono Dio? Se non si è scelti, non si fa parte della classe degli eletti!

Thomas: Tu sei scelta, perché Dio sceglie tutti, uno per uno, in modo da suscitare in ciascuno la coscienza di essere scelto. La scelta di Dio è amore. Dio ama incondizionatamente; non può non amare, altrimenti non sarebbe Dio. “Io sono Dio, non un uomo”, dice il Signore al profeta Isaia, capitolo 55. Leggi quel capitolo. Lo ha citato Paramahansa Yogananda alla fine della sua Autobiografia. Quel capitolo di Isaia ha aperto per me la strada che ho percorso finora.

Anna: Dunque, Dio sceglie gli uomini, non sono gli uomini che scelgono Dio. Ma se un essere umano non si sente scelto da Dio, si sente dimenticato da Dio, non si sente amato da Dio?

Thomas: Vuol dire che sei sulla strada giusta. Invece, se dicessi: “Mi sento fra gli eletti, sono sulla strada giusta”, allora dovresti stare attenta. Stai più al sicuro in quella condizione di aridità.

Anna: Ma è di grande sofferenza questa condizione.

Thomas: Di sofferenza sí, ma cosa vuoi? La fede non è tutta rose e viole. In America diremmo: “It’s not all beer and pretzels!”.

Anna: Significa che è una cosa particolare, che non è per tutti?

Thomas: È per tutti, è una cosa reale, ma non è un divertissement. Tutti cerchiamo i divertissement, diceva Pascal. Lascio la parola in francese perché non c’è una traduzione esatta in italiano o in inglese. Diversione, distrazione, divertimento sono aspetti di quello che Pascal intendeva dire. Soprattutto la persona religiosa, devota, pia, può divertirsi con questo grande divertissement, può trastullarsi con la sua pietà, con la sua devozione, con il suo credersi nel giusto.

Anna: Non è soltanto uno dei tanti modi per gonfiare l’ego?

Thomas: Puoi dire così. Io invece non ce l’ho con l’ego, perché ho capito che l’ego è poca cosa. Bisogna svilupparlo un po’ fino ai trentacinque anni, per difendersi davanti alle dure realtà della vita. Una fede che cerca sempre di difendersi mostra la propria debolezza. I fanatici, i fondamentalisti sono forse gente di molta fede? Sono gente di poca fede, sono insicuri nel loro credere.

Anna: E l’insicurezza genera violenza.

Thomas: L’ego fa parte della psiche; non ce l’ho con l’ego, come non ce l’ho con nessuna parte del mio corpo, né con l’aria che respiro, né con l’acqua che bevo. Nessun uomo deve odiare il corpo; neppure deve odiare l’ego.

Anna: È la prima volta che lo sento dire. Sono stata educata, per volere di mio padre, dalle suore fino a vent’anni; loro amavano ripetere che il corpo va punito, castigato, represso, controllato. Le vedo ancora vestite di nero aleggiare tra noi ragazze e ripetere che le nostre spalle erano curve per il peso dei nostri peccati.

Thomas: È assolutamente falso quanto t’insegnavano. Non è compatibile con il cuore della fede cristiana, la dottrina dell’Incarnazione.

Anna: I santi anacoreti che sceglievano una vita di privazioni, isolati dal mondo, nelle caverne, nemmeno in quel caso c’era la ricerca del superamento del corpo?

Thomas: La ricerca del superamento di ogni cosa può anche cominciare dal corpo, ma non si tratta di distruggere il corpo. Si deve rinunciare a tutto ciò che non è Dio, per amarlo con tutto il proprio essere. Ti faccio un esempio, l’antica descrizione di un santo anacoreta nella Vita di sant’Antonio Abate, scritta da sant’Atanasio. Dopo anni di tentazione, dopo aver lottato con demoni di ogni specie, nel momento in cui sant’Antonio esce dal suo romitorio fra le tombe — dice Atanasio — non è troppo magro, né troppo grasso, non è troppo ilare né troppo triste. È un uomo perfettamente integrato.

Anna: Sembra un passo della Bhagavad Gita.

Thomas: Esatto. “Lo Yoga non è per chi mangia troppo — dice la Gita —, né per chi mangia troppo poco; non è per chi dorme troppo né per chi dorme troppo poco”.[i] Nel racconto di Atanasio c’è anche un po’ di stoicismo, un fondo filosofico oltre a quello religioso, che esprime quella “sapienza universale” cui attingevano i santi cristiani come quelli indù. È comune alle due tradizioni l’ideale dell’integrazione della persona.

Anna: L’uomo deve essere imperturbabile di fronte alla gioia e al dolore. Il saggio è chi non ha paura del mondo e di cui il mondo non ha paura.

Thomas: Secondo la Bhagavad Gita, l’uomo integro deve avere la stessa visione dell’amico, del nemico, del parente, del lontano. Potrei accostare questa dottrina a quanto dice Gesù: “Amate i vostri nemici”.

Anna: Il concetto di porgere l’altra guancia?

Thomas: Sí, è questo ed è altro ancora.

Anna: Che cosa vuol dire oggi porgere l’altra guancia? Se qualcuno ti facesse del male,  reagiresti ?

Thomas: Non gli darei un pugno, ma non basta, sarei ancora lontano da quanto Gesù insegnava. Il Cristo risorge in me ogni volta che riesco a vivere la sua parola seguendo il suo esempio. Sarò integro se avrò pregato per i nemici come colui che disse, nel momento di essere crocefisso: “Padre, perdona loro, perché non sanno quello che fanno”. Realizzerò in pieno la mia persona se avrò amato chi mi odia.

Anna: È una virtù poco praticata oggi, difficile attuarla nel vivere quotidiano.

Thomas: È la virtù più necessaria oggi. Il mondo ha bisogno di praticarla. Abbiamo più bisogno di vivere questa virtù che di compiere riti o fare teologia. Oggi è necessario, quanto mai prima, pregare per i nemici fino ad amarli, fino a restituire loro il bene per il male.

Anna: E se c’è qualcuno che ti calunnia cosa devi fare?

Thomas: Reagire come Gesù ha reagito: “Egli non ha aperto bocca, ma si è affidato a chi giudica giustamente”, dice san Pietro. Gesù non è stato passivo, ma ha pregato per i suoi aguzzini e si è affidato totalmente a Dio, che giudica perdonando.

Anna: Si è fatto mettere in croce! Non è un segno di totale abbandono e passività?

Thomas: Si è fatto mettere in croce come un atto di obbedienza a Dio, suo Padre.

Anna: “Padre, perché mi hai abbandonato?”, egli dice prima di morire. Perché Dio lo ha abbandonato? Il suo grido non era espressione di umana disperazione, di solitudine?

Thomas: La frase di Gesù in croce è la prima riga del Salmo 22. Esprime la sofferenza di un individuo nel modo meno soggettivo possibile, con il linguaggio della preghiera comune. Gesù non esprime il suo dolore con una preghiera privata, individuale, ma con quella liturgica, la preghiera cantata nel tempio durante le feste pasquali. Gesù che recita questo Salmo in croce è un’elaborazione dell’evangelista. Il fatto storico è rivelato nella frase: “Emise un grande grido”, un grido che portò in sé il significato di quel Salmo.

Anna: Un grido di dolore, di disperazione.

Thomas: Gesù non ha disperato in senso teologico, perché il suo grido fu un atto di somma speranza. L’evangelista sentiva in quel grido di Gesù in croce tutto il Salmo 22, che esprime un rimprovero a Dio, un rimprovero quasi blasfemo. La domanda è retorica, secondo la retorica delle lingue semitiche: “O Dio, tu hai fatto male ad abbandonarmi! Se tu fossi davvero il mio Dio, non mi avresti abbandonato!”. Il salmista descrive la sua situazione atroce: “Sono ridotto al punto di vedere le mie ossa, come se ci fossero dei buchi nelle mie mani, eppure ancora proclamerò la tua lode nella grande assemblea! I poveri mangeranno e vivranno, racconteranno alle generazioni future quanto ha fatto il Signore”. Ecco quanto dice il Salmo 22. Allora, disperato? No. Il salmista ha avuto tanta speranza in Dio che gliel’ha urlata in faccia. Questa è la speranza, quando gridiamo a Dio tutta la nostra sofferenza, solitudine, disperazione.

Anna: Quante persone soffrono perché vorrebbero avvicinarsi a Dio, avvertono questo impulso interiore, questa chiamata, ma si sentono soli e abbandonati e non arriva nulla a scaldare il loro cuore.

Thomas: È bello fare l’esperienza di una presenza divina che ti scalda il cuore, ma ognuno ha il proprio dono. Ho avuto tante consolazioni quando seguivo Paramahansa Yogananda. Con lui personalmente non sono mai stato, ma ho seguito i suoi precetti, studiato le sue lezioni; ho praticato il Kriya Yoga con i suoi discepoli. Fu un’esperienza dolce e consolante. Tutto finì quando decisi di diventare cattolico.

Anna: È difficile per me parlare di qualcosa di molto personale, che non fa parte di questo discorso più vasto. A volte nel passato l’angoscia è stata così forte da togliermi il respiro, altre volte era la rabbia a scuotere il mio fragile corpo, o erano lo sconforto e la passività a dominare la mia vita. Come se non ci fossero più lacrime per piangere, né voglia di invocare. Mi sentivo svuotata in attesa di una risposta che non arrivava mai. “Dove ti sei nascosto, Amato, abbandonando me gemente? — scrive san Giovanni della Croce —. Come il cervo fuggisti, dopo avermi ferita; uscii invocandoti e te n’eri andato”.

Thomas: Tu non sei un’eccezione. Stai raccontando esattamente quello che ho sperimentato io.

Anna: Tu hai scelto di farti monaco perché sei stato chiamato e quindi il discorso è molto diverso.

Thomas: Quando ho accettato la Chiesa cattolica come mio guru non ho sentito nulla, anzi ogni passo mi portava verso un’ulteriore perdita di quelle consolazioni di cui godevo seguendo le orme di Yogananda. La religione di Yogananda è molto dolce, soltanto che è induismo.

Anna: Lo yoga cerca di risvegliare la nostra vera natura, la divinità che è in noi. Yogananda ripeteva spesso ai suoi discepoli che dovevano portare avanti l’idea della Self–Realization Fellowship, di una Chiesa di tutte le religioni fondata sul rispetto dei vari sentieri che portano a Dio. E Yogananda, proprio per confermare questa sua idea, realizzò sulle coste del Pacifico un tempio dedicato a tutte le religioni, the Lake Shrine. Accanto all’urna con le ceneri del Mahatma Gandhi ci sono le statue di Cristo, di san Francesco, di Buddha e di altri illuminati.

Thomas: La religione di Yogananda è anche induismo, perché Yogananda era un indù. Volevo farmi monaco a Los Angeles con i suoi discepoli, con Mokshananda e Kriyananda, giovani eccezionali, americani come me, dediti alla pratica della meditazione e alla vita di castità e rinuncia.

Anna: Evidentemente in quel momento avevi bisogno di un’esperienza monacale cristiana. Chissà, forse un giorno farai anche quella di sannyasin, oppure come Jules Monchanin e Henri Le Saux, che hanno fondato un ashram benedettino nel sud dell’India, Shantivanam, finirai per seguirle contemporaneamente.

Thomas: Già le seguo in qualche modo. Per molti anni, sin dal 1988, ho passato un paio di mesi ogni anno a Shantivanam.

Anna: Quando ti ho conosciuto ad Assisi, infatti, indossavi la veste arancione e non la candida veste benedettina. Mi sembra che il Vaticano accetti con riserva questa esperienza non proprio ortodossa di un ashram cattolico dove è possibile diventare anche sannyasin, rinunciante secondo quella che è la tradizione indù.
   Nel libro Alle sorgenti del Gange, Henri Le Saux parla di questo suo cammino spirituale così angoscioso, così conflittuale. Questo voler cercare Dio su due sentieri paralleli, quello cristiano e quello indù. Ed è soltanto in punto di morte, o poco prima di morire, che lui riesce, non a fare confluire le due religioni o le due scelte, ma a superarle entrambe. Almeno così mi è sembrato di capire. La sua storia è veramente affascinante. È il tipo di ricerca spirituale che mi è più vicina, fatta di dubbi e di disperazione, senza consolazioni.

Thomas: Padre Le Saux — in India lo chiamiamo Abhishiktananda — certamente superò la ristrettezza della sua formazione cattolica, che lo condizionava moltissimo. Jules Monchanin, invece, proveniva da un’esperienza familiare ed ecclesiale molto diversa. La sua città, Lione, non era la Bretagna di Le Saux. A Lione era molto ricca la vita intellettuale. I cattolici erano protesi verso le missioni e verso un dialogo con le culture sia antiche che contemporanee. Monchanin, per temperamento e per formazione intellettuale, era un uomo molto aperto, mentre Le Saux proveniva da un ambiente tradizionalista e culturalmente chiuso. Ha fatto fatica ad aprirsi.

Anna: Il suo è stato un cammino straziante, sia pure con grandi illuminazioni. Nel suo diario parla continuamente di angoscia e sofferenza. Questo mi fa capire che, anche per i grandi, il rapporto con Dio non è senza contraddizioni e dolore.

Thomas: In qualche modo anch’io ho dovuto affrontare la stessa esperienza di angoscia e d’illuminazione, dopo aver ascoltato, al tramonto del 24 giugno 1960, una voce interiore che mi diceva di accettare la Chiesa come mio guru. In quel momento ho sperimentato Dio come mai l’avevo sperimentato prima e, allo stesso tempo, ho capito che sarei rimasto senza consolazioni.

Anna: Scegliere la Chiesa cattolica significava per te rimanere senza consolazioni? Il Cristo non è l’unica grande consolazione per ogni cristiano?

Thomas: Nel mio caso accettare la Chiesa ha significato accettare di camminare senza le consolazioni. Per vari motivi. Uno è questo: sebbene la Chiesa cattolica sia la mia Chiesa, la mia cultura è altra. La Chiesa cattolica è la tua Chiesa ed è parte essenziale della tua cultura. Puoi non andare a Messa, però hai sempre la tua Chiesa. Sei nata a Roma all’ombra della cupola che ti piace tanto. In me, invece, la cupola suscita orrore per quel cattolicesimo trionfante che esprime. E i due colonnati sono come due braccia che mi stringono il collo, mi tolgono il fiato.

Anna: Abbiamo sensazioni opposte. Probabilmente io la vedo nella sua bellezza architettonica, come opera d’arte; tu, come monaco, la vivi come istituzione che ti opprime.

Thomas: Non come istituzione ma come gioco di simbolismo. I simboli hanno una potenza psicologica formidabile che Bernini e Michelangelo capivano bene. Il papa di quei tempi ha voluto l’obelisco come un lingam in mezzo alla yoni del colonnato. Anche se è vero che il lingam del culto induista non è precisamente un simbolo fallico, c’è in quell’obelisco eretto al centro del colonnato una forte carica erotica, che tutti sentiamo a livello inconscio, senza esserne consapevoli. Questo non è il mio problema. Sono le dimensioni eccessive del complesso che mi fanno sgomento. Io sono della scuola small is beautiful, “il piccolo è bello”, e lo penso anche della Chiesa. Amo la piccola assemblea, la piccola comunità. Temo le folle oceaniche che osannano. Sono le stesse folle che invocarono la crocefissione. Non mi fido delle folle, come non si fidava lo stesso Gesù.

Anna: C’erano migliaia di persone che andavano ad ascoltare i suoi sermoni sulla montagna. E lui moltiplicava pani e pesci per sfamarli. E lo seguivano mentre si spostava da una città all’altra. Anche Giovanni Paolo II con il suo carisma, nonostante l’età e la malattia, è sempre riuscito a catturare milioni di persone, sia durante i suoi viaggi all’estero, quando portava la sua parola di pace in ogni angolo sperduto della terra, sia durante le cerimonie in Vaticano. Il Giubileo del 2000 è stato un vero trionfo di folle. E Papa Francesco, con il suo carisma, sembra addirittura attirare folle ancora più gigantesche.

Thomas: Gesù si dava ma non si fidava. Lo dice il Vangelo: “Non si fidava della folla”. Appunto, Gesù era di Nazaret, non di Roma, la città dei trionfi e delle folle.



[1] Paramahansa Yogananda, grande maestro indiano, visse negli Stati Uniti per più di trent’anni. Ha fatto conoscere agli occidentali la tecnica del Kriya Yoga. La sua Autobiografia di uno Yogi è uno dei libri più diffusi nel mondo.



6 Bhagavad Gita, cap. 6,16. Ubaldini

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