Essere
monaco oggi
Anna: In una società così percorsa da fremiti autodistruttivi ha
ancora senso oggi decidere di diventare monaco?
Thomas: Vedo il senso della
mia scelta monastica in Gesù che sale sul monte a pregare e viene trasfigurato.
Allo stesso tempo sento i fremiti della società di cui facciamo parte. Cerco
Dio nella contemplazione, perché Dio ha iniziato un dialogo diretto con me; mi
ha cercato nel mondo, là dov’ero, e mi ha trovato. La teologia usa un’altra
espressione: ogni vocazione è una grazia; viene da Dio, non solo dalla scelta
dell’individuo. Anche senza ricorrere alla teologia, trovo un senso nell’essere
monaco. L’India mi ha rivelato l’ideale del pellegrino dell’Assoluto che cerca
di realizzare in sé e di manifestare al mondo una realtà trascendente di là di
ogni nome e da ogni forma. La posizione interreligiosa del monaco ha grande
importanza; rafforza la mia convinzione che l’essere monaco è un servizio per
il bene comune di tutta l’umanità.
Anna: Il monaco,
nell’isolamento dell’eremo, impegna tutte le sue energie per realizzare se
stesso, per santificare la sua persona. Il sacerdote, invece, è costretto dalla
sua funzione pastorale a vivere tra la gente; mette la sua vita e il suo tempo
a disposizione del popolo di Dio.
Thomas: Il monaco è a servizio
dell’umanità, sia che realizzi la sua vocazione pubblicamente, in un istituto
monastico, sia che la viva da eremita, ignoto e ignorato da tutti. Il
sacerdote, invece, ha una funzione impersonale, legata sia alle istituzioni,
sia alla gente. La validità del ministero di un sacerdote non dipende dalla sua
santità personale. Tu ricevi il sacramento, anche quando chi te lo conferisce
non è un santo. Il monaco, invece, è votato alla santità, e la sua vocazione
porta benefici agli altri in quanto egli coopera con la grazia santificante.
Anna: Avalokiteshvara, il bodhisattva[i]per
eccellenza del buddhismo mahayanico, è il realizzato che sceglie di reincarnarsi
e di tornare sulla terra unicamente per aiutare gli altri esseri viventi. Egli
ama tutti come fossero suoi figli. La compassione è la molla che lo spinge ad
abbandonare la sua pace e la sua felicità personale per condividere le
sofferenze degli altri. Chi sceglie la vita monastica, invece, preferisce la
solitudine dell’eremo al contatto continuo e contaminante con la vita.
Thomas: Come sono i nostri
eremi oggi? La gente entra, ci vede, ci sente, e noi l’accogliamo volentieri.
Il monaco è chiamato a essere una persona ospitale, disposta anche a infrangere
le regole del digiuno e del silenzio per accogliere chiunque arrivi alla sua
porta. Però la vocazione del monaco lo porta alla solitudine e lo colloca ai
margini della società.
Anna: La meta, la propria
santificazione, può diventare più importante dell’amore e della carità per il
prossimo. Non si corre forse il rischio, in queste condizioni, di alimentare
l’ego, l’orgoglio spirituale?
Thomas: Certo, si può
diventare egoisti anche nel monastero. Secondo la Regola benedettina,
santificarsi significa amare e rispettare tutti.
Anna: Non si è monaci per
scelta, per vocazione interiore? Bisogna necessariamente scegliere una veste e
un ordine?
Thomas: Non necessariamente.
Per scelta e per grazia vocazionale, uno può indossare la veste di monaco.
D’altra parte per comodità oggi si preferisce non portare sempre l’abito
monastico nei monasteri.
Anna: Ho trovato, infatti,
curioso vedere i monaci, all’interno o all’esterno della loro comunità, girare
in jeans.
Thomas: Le vesti, le regole,
le osservanze servono per formare il monaco. È vero che siamo sempre in
formazione, ma l’essenza del monacato non sta né nell’abito né nelle regole.
San Benedetto direbbe: sta nella ricerca di Dio.
Anna: I monaci non hanno delle
regole ben precise che non possono contravvenire, dei limiti? Quello che stai
dicendo non è una contraddizione? Anch’io credo di cercare Dio, ma non ho
scelto la vita monastica. Dunque, se non è necessaria la veste, si può essere
monaci a prescindere dalla regola?
Thomas: A volte, per essere
monaci davvero, bisogna abbandonare certe regole. Ti faccio l’esempio di due
eremiti italiani che mille anni fa andarono missionari in Polonia; decisero di
non indossare la tonaca per utilizzare i vestiti dei contadini polacchi.
Rinunciarono ai segni esteriori per adattarsi alla cultura di coloro ai quali
portavano il vangelo. Si erano proposti di portare un messaggio di pace a un
popolo violento ma furono uccisi. Non hanno predicato a nessuno, non hanno
fatto proseliti, non hanno battezzato. Questa fu la loro evangelizzazione.
Anna: Un sacerdote e un monaco
hanno entrambi gli stessi voti di castità, povertà e umiltà. Ciò che distingue
le due vocazioni religiose, quindi, sta proprio nel vivere questa scelta in solitudine
o in mezzo agli altri.
Thomas: Sono due archetipi
diversi, due funzioni religiose diverse. Il monaco non ha una funzione
religiosa precisa, anche se l’archetipo monastico si esprime nelle grandi
culture tramite un’esperienza religiosa. Il monaco pratica la sua religione, ma
vive ai margini di essa. Proprio la marginalità del monaco è la sua nota
caratteristica. Chiamato alla solitudine del deserto, il monaco si trova fuori
delle strutture religiose, specialmente quando queste sono legate alle strutture
sociali del potere.
Anna: Marginalità rispetto
all’istituzione della Chiesa?
Thomas: Rispetto a qualsiasi
religione. Prendiamo il buddhismo, per esempio, è una religione monastica. A un
certo punto i monaci hanno cominciato a svolgere funzioni del clero, e allora è
iniziato il declino storico del buddhismo in India. La solitudine del monaco
eremita — o dei monaci cenobiti che stanno insieme nella solitudine — lo
differenzia dal sacerdote. Il sacerdote svolge funzioni sacre, anima la
comunità che prega, insegna la dottrina della fede. Il monaco semplicemente
prega e lavora.
Anna: Potremmo dire che il
monaco vive fuori dal mondo e il sacerdote è nel mondo?
Thomas: Il sacerdote ha una
collocazione che lo delimita all’interno del mondo, mentre il monaco è uno che
liberamente spazia nel mondo e fra i mondi di qua e di là.
[i]Bodhisattva: letteralmente, “un essere
destinato all’illuminazione [bodhi]”,
un “futuro Buddha”. Nella tradizione buddhista detta “del grande veicolo [mahayana]”, i bodhisattva sono figure leggendarie che incarnano le varie virtù,
soprattutto la compassione e l’amicizia (karuna
e maitri) che raggiungono la loro
perfezione nel Buddha storico, Gautama il Sakyamuni. Con il “voto del bodhisattva” una persona sulla soglia
del nirvana s’impegna ad anteporre al
raggiungimento della propria beatitudine la liberazione dalla sofferenza di
tutti gli essere viventi.
5 Paramahansa Yogananda, grande
maestro indiano, visse negli Stati Uniti per più di trent’anni. La sua
Autobiografia di uno Yogi, è uno dei libri più diffusi nel mondo. Ha fatto
conoscere agli occidentali la tecnica del Krya Yoga.
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