giovedì 4 ottobre 2018

Il silenzio


Il silenzio

Anna: Per anni ho sentito l’esigenza del silenzio, un’esigenza fisiologica di silenzio e solitudine. Andavo in vacanza da sola, scegliendomi la casa più isolata dell’isola più lontana, dove stavo per dieci, quindici giorni in assoluto silenzio senza radio, televisione, telefono. Era faticoso anche parlare con il negoziante che doveva vendermi il pane o la frutta. Credo fosse proprio una necessità fisica, serviva per ricaricarmi. La salute sempre delicata, un lavoro stressante, la responsabilità di un figlio. Era un modo per staccare la spina, sparire, curare l’anima e lo spirito. Eppure molti hanno paura del silenzio. Anzi, la nostra civiltà è una civiltà che non ama il silenzio. Si tende a riempire ogni spazio della propria vita con parole, musica, rumori. L’inquinamento acustico e le vuote parole sono usati come barriere, per impedirci di ascoltare noi stessi e gli altri. Nel libro L’arte di tacere, l’Abate Dinouart fa l’esegesi del silenzio[i] e dà un consiglio: “Desiderare fortemente di dire una cosa, è spesso motivo sufficiente per decidere di tacerla”.

Thomas: La regola monastica, invece, propone ora il silenzio, ora l’uso discreto della parola. La chiave è la discrezione: se il parlare non favorisce le mie relazioni con il prossimo, meglio tacere. È vero anche il contrario. Mi ha fatto riflettere un’affermazione di Bahman Faranara, regista iraniano sempre sotto il torchio della censura di regime: “Ho cinquantanove anni, mi resta troppo poco tempo per tacere”. Il nostro ex–abate, don Benedetto Calati, poco prima di morire, in un’intervista parlò apertamente dei profondi cambiamenti che prevedeva nella Chiesa, sulla scia di quelli avvenuti in seguito al Concilio Vaticano II.[ii] Dietro le sue parole profetiche ci sono settant’anni di silenzio monastico e di ascolto.
   Il monaco sente l’esigenza del silenzio per ascoltare Dio. Se guarda dentro di sé e trova un silenzio senza Dio, fugge e va in cerca di quello che Pascal chiamava divertissement: distrazioni, divertimenti, diversioni. Qualunque cosa per non pensare alla propria miseria.

Anna: Vuoi dire che se una persona non trova dentro di sé Dio, scopre sempre il vuoto?

Thomas: Non trova nemmeno se stesso. Può trovare pezzi di se stesso, ma non trova la sua interezza, non trova il suo vero sé.

Anna: Il silenzio, quindi, porta con sé il concetto della solitudine. Il silenzio come atto di ascoltare la natura, l’anima, Dio. La ricerca della solitudine, però, può anche essere intesa come espressione di orgogliosa autosufficienza e di disinteresse per coloro che ci circondano.

Thomas: All’inizio il ritirarsi nella solitudine può essere espressione di orgoglio o di rifiuto degli altri, ma non può sussistere questa motivazione per molto tempo. Si finisce nevrotici o psicotici.

Anna: Si può essere soli anche in mezzo alla folla, anzi devo dire che più si è in mezzo alla folla più si è soli.

Thomas: Una persona molto interiorizzata può non essere minimamente turbata dalla presenza degli altri e può sentirli vicini anche nel deserto. Un’altra può essere alienata in mezzo alla folla; si sente estranea e sola ovunque vada.

Anna: In una delle tue lettere dall’India mi parlavi della differenza di significato che c’è tra la parola solitudine e la parola isolamento. Citavi il passo di un libro di un autore americano.

Thomas: È un libro non recente, del 1978, di Theodor Roszak: Person–Planet. Parlando della solitudine dice: “Ecco ciò che veramente costituisce la solitudine della persona: uno spazio intimo riempito da se stesso e forse da Dio, che sfugge a ogni paragone. È un abisso senza fondo; ma lì la persona impara un modo radicalmente nuovo di rapportarsi con gli altri, per stabilire relazioni purificate da ogni invidia e da ogni paura. Il paradosso della solitudine autentica, la solitudine usata a buon fine, è che può gettare le fondamenta per la più sana convivialità poiché solo le persone integrate e autonome costruiscono amicizie limpide”.[iii]
   La parola clean, limpido, evoca l’immagine di un vetro pulito. La trasparenza della persona è il segreto delle amicizie autentiche. Spero che la solitudine che ho vissuto mi abbia reso più pulito, limpido, trasparente nei miei rapporti con gli altri. I veri rapporti nascono quando la persona è capace di entrare dentro di sé.

Anna: Forse quando l’uomo è capace di mettere a nudo se stesso di fronte all’altro. La maggior parte delle persone, invece, vive dietro una maschera. Non capisci mai cosa pensano, cosa vogliono realmente. Ho notato con sorpresa che hai letto quasi con tono professionale il passo di Roszak. Non a caso sei nato a Hollywood!

Thomas: All’università ho studiato recitazione e interpretazione orale della letteratura lirica e teatrale. Mi piacevano queste materie, perché da bambino mio padre mi faceva leggere poesie e poi mi correggeva, mi dimostrava come dovevo recitarle. Per qualche mese aveva frequentato una scuola di recitazione vicino a Los Angeles, il Pasadena Play House.

Anna: Dunque, da adolescente sei stato tentato dall’idea di interpretare tante vite; poi, con la scelta monastica, hai finito per non interpretare nemmeno la tua vita!

Thomas: Cerco di interpretare la mia esperienza di Dio. Nessuno mi dà un copione, neppure Dio.

Anna: Non reciti la tua parte nel mondo, ma reciti il tuo ruolo nella vita universale.

Thomas: Già nella mia adolescenza l’artificiosità dei rapporti nella società cosiddetta “normale” mi faceva quasi disperare di conoscere un rapporto profondo e autentico.

Anna: Trovi che nessun rapporto umano può essere genuino?

Thomas: Se un rapporto è veramente umano è per ciò stesso genuino.

Anna: Perché parli, allora, di artificiosità?

Thomas: Perché spesso non sono rapporti; sono convenzioni. Raramente si ha come scopo il rapporto in se stesso, il valore di essere in relazione con l’altra persona. Invece si utilizza l’altro come strumento per raggiungere qualche scopo: soldi, una posizione, il potere, la soddisfazione sessuale. Nella nostra società prevale la mercificazione dei rapporti. Io ti sorrido, ti saluto, m’interesso delle tue cose per influenzarti, per farti rientrare nel mio progetto. Dale Carnegie, nel suo libro e nei suoi corsi How to win friends and influence people (“Come guadagnare amici e influire sulla gente”), insegna come essere bonari e scaltri, con lo scopo di costruire l’America ricca e potente. È da questa mercificazione dei rapporti che mi sono allontanato, entrando nell’eremo camaldolese di Big Sur.

Anna: Hai detto un giorno: “Ogni vocazione è una grazia, viene da Dio oltre che dalla scelta dell’individuo”. Dunque, si sceglie la vita religiosa, sia come monaco che come sacerdote, perché si ha una chiamata, un messaggio dall’alto.

Thomas: Chi sceglie di diventare monaco o sacerdote riflette a lungo prima di prendere la sua decisione. Sente che è la scelta giusta, la strada da seguire per raggiungere il fine ultimo. Anche una donna può sentire la chiamata ad annunziare il vangelo, a battezzare, ad animare una comunità di preghiera. Non parlo di “sacerdozio”; parlo più ampiamente di “ministero”. Il ministero delle donne nella Chiesa è stato represso con effetti tragici, con grandi crolli di fede e di prassi religiosa. Nel Medio Evo le comunità monastiche femminili avevano una certa autonomia. Qualche badessa aveva grande autorità, fino a esercitare una certa giurisdizione, analoga a quella di un vescovo, sulle parrocchie e quindi sui preti, che in quelle parrocchie officiavano. In alcune Chiese orientali c’erano le diaconesse che erano ordinate dal vescovo con l’imposizione delle mani davanti all’altare, un’ordinazione sacramentale a tutti gli effetti.
            Ho accennato alle donne, non per parlare delle donne–sacerdoti, ma per parlare della grazia vocazionale, che è un fatto interiore. Senti un calore interiore che ti attira. Cerchi la fonte del calore; forse non vedi una luce, ma ti metti in cammino. Nel passato, invece, molti si sono fatti preti per mestiere, senza una vera chiamata interiore; spesso il prete mestierante si è rivelato un grande fallimento.


Anna: Cosa ne pensi dell’ipotesi di istituire una commissione proprio sul diaconato delle donne?  Papa Francesco riesce sempre a sorprendere.

Thomas: Quanto al diaconato, sono convinto -- come insegnava il grande teologo e liturgista P. Cipriano Vagaggini -- che la tradizione cristiana, prima delle divisioni delle chiese, riconosceva la vocazione delle donne a pari titolo con gli uomini per questo ministero. Già di fatto la Chiesa greca ortodossa ha, non molti anni fa, ripristinato l'ordinazione diaconale delle donne. Noi monaci e monache dell'Ordine benedettino siamo molto felici che il santo padre Papa Francesco abbia aperto la conversazione sulle donne diacone -- non parlo delle cosiddette "diaconesse" incaricate delle opere di carità ma senza una vera e propria ordinazione. Le donne diacone delle antiche Chiese orientali accedevano al santuario e cantavano il vangelo.

Anna: Negli Stati Uniti ci sono tante Chiese, tanti predicatori. Lo scrittore americano Harold Bloom in un’intervista dà un’interessante interpretazione della richiesta di spiritualità degli americani sfociata poi nella New Age. Il rifiuto del dogmatismo e della cristianità istituzionale, che sta alla radice della New Age, — dice — è molto valido, ma sfortunatamente — aggiunge Harold Bloom — gli americani non sono colti né molto intelligenti. Questo spiegherebbe secondo Bloom il proliferare di sette e predicatori e il successo di libri come La profezia di Celestino.

Thomas: Quanto sostieni sarà l’opinione del dottor Bloom, dalla quale posso dissentire. In America ci sono tante chiese e tante religioni, e tutte sono libere, perché non c’è l’anticlericalismo.

Anna: In Italia c’è il Vaticano e Roma, come tu sai, ospita la Santa Sede. La presenza della curia si è fatta sentire spesso in ogni atto della nostra vita quotidiana. Qualunque evento accadeva, da un fatto di cronaca a un caso di coscienza, c’era sempre la presa di posizione di un vescovo o di un cardinale sollecitati, a dire il vero, spesso dai mass media. Con Papa Francesco questo interventismo curiale sembra affievolito.

Thomas: I vescovi politicanti danno fastidio anche a me. Torniamo al discorso di prima. La grazia vocazionale è un fatto personale e soggettivo, ma quando si tratta del sacerdozio ministeriale, la chiamata deve essere verificata dalla comunità e da chi la presiede, il vescovo. Invece la chiamata al servizio del popolo di Dio in senso più vasto va oltre il sacerdozio. Ci sono tanti ministeri nella Chiesa: il monacato, le tante forme di vita religiosa e gli innumerevoli compiti propri dei fedeli laici. I monaci e le monache rispondono in modo più diretto agli archetipi trans–religiosi. I membri delle congregazioni dette “attive” — la suora ospedaliera o il salesiano — rispondono meno a questi archetipi e sono omologati a una specie di clero allargato. Gli istituti maschili sono quasi tutti clericali; suppliscono il clero secolare mancante. Invece i monaci, compresi quelli che sono sacerdoti come il sottoscritto, non dovrebbero svolgere funzioni di supplenza. Il nostro ministero è alternativo a quello del prete o del religioso clericale.

Anna: Se per essere chiamati al monachesimo è necessaria questa voce interiore, questo calore interiore, questa spinta che nasce dentro, la fede, quindi, è un dono divino, è qualcosa che   viene dall’alto?

Thomas: Oppure sorge dal basso. Tutte queste metafore zoppicano. La fede sei tu, in quanto vivi in relazione con il tuo Dio. Quando Gesù dice al centurione o alla  siro–cananea: “Non ho mai visto tanta fede in Israele, va in pace, la tua fede ti ha salvato”, cosa sta dicendo? La fede è un rapporto. In effetti, Gesù dice: “Il tuo Dio, come tu l’hai conosciuto e a cui ti sei affidato, ti ha salvato”. È anche un modo per dire: “Non sono stato io, il Figlio dell’uomo; non pensare a me, ma a quel rapporto con Dio dentro di te di cui ti faccio prendere coscienza”. Il miracolo dura finché si vede. Dopo si può razionalizzare, spiegare e dimenticare. Un rapporto interiore non si dimentica facilmente.





[i] Ed. Sellerio.
[ii]Raffaele Luise, La visione di un monaco. Il futuro della fede e della chiesa nel colloquio con Benedetto Calati (quarta edizione, Cittadella Editrice, 2001).
[iii]“That is just what the solitude of the perso bis: a private space filler Wight oneself  and perhaps with God, who is beyond all comparison. It is a directionless abyss; but the person learns a radically new relationship with others, one that is purged of envy and fear. Paradoxically, authentic solitude, solitude well used, may be the basis of the healtiest conviviality  because only whole and autonomous persons make clean friendships.”

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