giovedì 4 ottobre 2018

Incontri con l'India


Incontri con l’India

Thomas: Finora abbiamo narrato i rispettivi viaggi interiori. Parliamo adesso dell’India che abbiamo conosciuto con i nostri sensi, delle persone e delle cose che abbiamo visto, sentito, toccato.

Anna: Quando sono in viaggio, mi piace, dove è possibile, pregare in tutti i templi, buddhisti, induisti, cattolici, mussulmani. Non faccio distinzione di architetture. Devo però ricordare che il luogo più carico di misticismo che ho visitato, rimane lo Stupa di Sanchi, vicino a Bhopal. Fu fatto costruire dall’imperatore Ashoka più duemila anni fa, in cima a una collina, e completato qualche secolo più tardi. Sono rimasti intatti anche altri piccoli stupa e resti di monasteri.
   Lo stupa principale, un’enorme semisfera poggiata sul terreno, dove sono conservate le reliquie del Buddha, ha quattro porte rivolte verso i quattro punti cardinali, ogni porta ha stupendi bassorilievi. E il sole entra ed esce dalle porte, secondo se è l’alba o il tramonto. È un posto di una carica spirituale incredibile, frequentato soltanto da devoti buddhisti che vengono a compiere, come raccomanda la tradizione, tre giri intorno allo Stupa per caricarsi di energia cosmica. È fuori dagli itinerari turistici e forse per questo ha conservato intatto il suo fascino. Anche la Porziuncola di san Francesco d’Assisi, se non ci fosse quel via vai continuo di gente che entra, dà un’occhiata ed esce commentando ad alta voce, avrebbe lo stesso fascino. Ricordo che un giorno nella Porziuncola ebbi per alcuni istanti la stessa percezione della coscienza cosmica che avevo avuto a Yogaville, in Virginia, nel Tempio del Loto, accanto a Swami Satchidananda. Questi due episodi mi hanno confermato che l’energia divina è presente in ogni luogo, a prescindere dalla religione in cui si crede. Anche la basilica di San Pietro potrebbe essere un luogo magico ma è troppo imponente, maestosa, ha troppi ori, colonne al suo interno. Ha più fascino all’esterno, dove la linea architettonica è più pura.
   Lo Stupa di Sanchi è nel cuore dell’India; è l’ombelico dell’India. Il tempio è grandioso e povero nello stesso tempo, ha soltanto le quattro porte scolpite, e attorno alberi e panchine. È un posto magico, veramente magico. Quando ci sono tornata dopo dieci anni — perché ho voluto rivedere quel tempio che mi aveva così colpito la prima volta — non mi ha dato le stesse emozioni. Ho capito che se non si è pronti dentro le cose non accadono. Quando sono andata la prima volta a Sanchi era anche il mio primo viaggio in India. Ero malata, uscivo da quella lunga e dolorosa malattia di cui ti ho accennato, avevo il cuore aperto, forse perché stavo vivendo un’intensa storia d’amore, ed ho avuto un’esperienza che potrei definire di espansione di coscienza. Mi sentivo così felice, da sentirmi parte di un Tutto. Una magia, questo mondo, una molecola dell’universo. Ho fatto tre giri attorno al tempio, come raccomanda la tradizione e come vedevo fare agli altri devoti, e mi sono sentita subito ricaricata di energia vitale. Avevo barcollato fino il giorno prima, ero così debole poi, improvvisamente, l’energia cosmica tornava a fluire dentro di me, mi donava tono e vitalità. Incredibile! Non ero una buddhista, ma amavo e amo moltissimo la figura del Buddha, e aveva funzionato.
   Quando dopo dieci anni ho voluto rivedere quel posto magico, la mia storia d’amore era finita, il mio cuore era chiuso, ormai di pietra, incapace di amare, e non ho sentito più niente, né l’espansione di coscienza, né questo sentirsi parte di un Tutto, né questa energia cosmica che entrava dentro, filtrava e mi ricaricava. Ti ricordi quando siamo andati a meditare insieme nella camera della reclusa, nel monastero sull’Aventino?

Thomas: L’angusta cella dell’anacoreta americana, Nazarena, dov’è vissuta per quarant’anni, fino alla sua morte nel 1990. Ci siamo seduti per terra, come faceva lei.

Anna: Tu sei in sintonia con quella stanza e ogni volta che vi entri, senti il cuore che si scalda. Quando invece io sono entrata con te la prima volta e mi sono seduta per terra in posizione di meditazione, ho avvertito improvvisamente una forza potente che mi paralizzava, m’impediva quasi di respirare, come se qualcuno volesse penetrare nel mio corpo. E ho avuto paura. Per tanti anni ho somatizzato all’altezza del cuore, avevo dolori continui, un’angoscia opprimente, ma il cuore non si è aperto. Evidentemente sull’Anahata Chakra bisogna lavorare parecchio. Perché quando si raggiunge l’amore universale, in pratica si è vicini alla perfezione.

Thomas: Dice san Giovanni: “L’amore perfetto scaccia la paura”.[i] Bisogna vedere che carattere aveva la paura che hai sentito nella cella di Nazarena. Perché c’è il timore suscitato in noi dall’esperienza del numinoso, del divino, che spaventa ma attrae, e il timore del male, del Maligno, che ci ripugna e suscita orrore. Anche Nazarena ha sperimentato più volte una presenza maligna nella sua cella.

Anna: Un’altra epifania, così potremmo definirla, risale al mio primo viaggio in Kashmir, nel 1982. Soffrivo moltissimo perché avevo due lutti da digerire, la morte di mio padre e la fine di un rapporto intenso, coinvolgente, il più importante della mia vita. Avevo un dolore lacerante al cuore, spaventoso. Mi svegliavo la notte con le lacrime agli occhi, con il cuscino bagnato perché, o sognavo mio padre o sognavo quest’uomo. E ogni volta c’erano sempre mille difficoltà che rendevano i contatti difficili, impossibili. Ed io mi disperavo perché li vedevo scomparire tra la folla e non potevo più avvicinarli e dire loro ciò che mi era rimasto congelato nel cuore.
   Mio padre era sempre stato molto severo con me, privo di affettività per un eccesso di pudore o per un malinteso senso di virilità. Soltanto poco tempo prima di morire si era ristabilito un rapporto affettuoso e così la sua scomparsa mi aveva lasciato un vuoto incolmabile, avevo perso quello che non avevo mai avuto e che avevo intravisto come possibilità.  Invece l’uomo che ho amato più di me stessa, alla fine avevo deciso di lasciarlo perché il rapporto era diventato per me troppo doloroso, distruttivo. Ne andava della mia vita. Qualche anno dopo, per altri motivi, si ripresentò la stessa condizione di sofferenza atroce, ma in quel caso ebbi la fortuna di incontrare Giovanni Paolo II.
   Del mio improvviso viaggio in India dopo la morte di mio padre ti ho già accennato. Ero a Srinagar, dormivo in una house boat, stavo facendo, come tutte le sere, un sogno doloroso, quando mi svegliai improvvisamente. Ai piedi del mio letto c’era una figura luminosa, un ovale di pura luce, non aveva sembianze umane. Per quei pochi eterni istanti, che è rimasta lì davanti a me, ai piedi del letto, ho sentito una tale pace, una tale gioia, il mio cuore era diventato improvvisamente leggero. Poi questa figura luminosa si è spostata a sinistra, dove c’erano il muro e la porta, ed è scomparsa dalla mia vista. Mi sono subito girata a destra per vedere se la mia compagna di viaggio si fosse accorta di qualcosa, ma lei dormiva. Mi sono riaddormentata e ho ricominciato a piangere.
   L’India mi ha regalato questi due intensissimi e straordinari momenti. Nei tuoi soggiorni non ci sono stati incontri, com’è accaduto per me, con luoghi o persone che ti hanno lasciato un segno?

Thomas: Sono stato in India per la prima volta nel 1978, in compagnia di un monaco dell’Abbazia di Praglia. Fu per me come “tornare a casa”, o meglio, come rivedere un luogo di pellegrinaggio già visitato. Beninteso, l’avevo visitato nella mia immaginazione, per via di quell’esperienza d’immedesimazione con Yogananda di cui ti ho parlato. Mi hanno particolarmente colpito due luoghi, l’antico tempio di Pashupatinath in Nepal, dedicato a Shiva, il divin Pastore, e i ruderi dello stupa e dei monasteri buddhisti a Sarnath, fuori Varanasi. Sentivo familiari sia l’ambiente naturale sia i simboli dei luoghi sacri, ma li vedevo con proporzioni diverse da quelle che avevo immaginato, come se rivedessi un posto conosciuto solo nell’infanzia. Ci sono tornato altre volte; la meditazione è stata più profonda, ma senza lo stupore di riconoscimento che sperimentai la prima volta.

Anna: Ogni stagione della mia vita sembra segnata da un fatto inspiegabile. Un episodio risale ai miei vent’anni. Mi ero appena sposata e un giorno tornando a casa trovai l’impronta di una mano su un mio grembiule da cucina, di colore celeste pallido. Era una mano dalle dita affusolate, come un calco perfetto, con tutte le linee stampate di un grigio pallido, leggermente più lunga della mia, di qualche millimetro, perché istintivamente ve la posi sopra. Era la mano destra con le dita rivolte verso l’alto. Quella presenza inquietante mi spaventava, mi terrorizzava, decisi così di distruggerla. Misi a bagno più volte il grembiule in acqua e candeggina. La stoffa, celeste, divenne sempre più sbiadita, ma l’impronta della mano rimase identica, allora la feci a pezzi, la tagliai, la gettai nella spazzatura. Dimenticai questo episodio per circa vent’anni. Mi tornò alla memoria durante il periodo di analisi junghiana con Hélène Erba Tissot, madre spirituale e amica carissima per oltre dieci anni.
   Avevo poco più di vent’anni. Era la prima volta che mi capitava qualcosa che non riuscivo a spiegare con la ragione, che sfuggiva a ogni logica. La paura non poteva essere determinata soltanto dalla mia inesperienza?

Thomas: In questo caso la tua paura ti segnalava, non il numinoso, ma una presenza negativa, diabolica, non in armonia con la tua natura.

Anna: In quel momento avevo completamente rifiutato il numinoso, ero appena uscita dall’educazione impartita in un istituto religioso per volere di mio padre, avevo dimenticato i miei interessi adolescenziali per lo Yoga, credevo di aver abbracciato l’ateismo. Tutto quello che non era riconducibile a una spiegazione razionale, veniva da me rifiutato. Cosa che mi succede ancora, quando mi capita qualcosa di apparentemente inspiegabile. La mia paura potrebbe essere stata determinata dalla mia non accettazione del numinoso? Non soltanto ho avuto un padre naturale severo e intransigente e questo spiega perché anch’io sono così, sia pure in forma mitigata essendo una donna, ma io vivevo e vivo una figura di Padre soprannaturale altrettanto severo e giudicante. Nei momenti di dolore, quando ero sopraffatta dalla disperazione, mi veniva spontaneo piangere invocando: ”Padre, perdonami”. O di piangere nel sonno e chiedere: “Padre, che cosa ho fatto di così terribile per meritare tanto?” Poi mi dicevo: ”Perdonami, ma per che cosa?”. Qual è il peccato che Dio non riesce a perdonarmi? Perché Lui non mi ama?

Thomas: Non esiste un peccato imperdonabile, se non quello di non voler essere perdonati da Dio.

Anna: L’esperienza del divino è riservata a pochi eletti! Se non ammetti tante vite, milioni di persone non sapranno mai cos’è. Non potranno mai fare l’esperienza del divino, troppo occupati dalla sopravvivenza, o perché non hanno gli strumenti culturali per avvicinarsi a questi temi.

Thomas: Non puoi immaginare un Dio che condanna all’inferno i suoi figli. Eppure tu immagini un Dio che li rimanda in continuazione su questa terra, vita dopo vita. E hai appena detto che questa vita è un inferno!

Anna: Non è lui che ci rimanda; siamo noi che ci torniamo finché non troviamo la strada per riunirci a Lui per sempre.

Thomas: Anche questa è teologia, quella indù anziché quella cattolica. È sempre una teoria astratta, non un’esperienza. Dio non ha inventato l’inferno, ma ci ha creati per sé, perché fossimo uniti a lui nell’amore.

Anna: Dio, se esiste (non riesco a immaginarlo secondo l’iconografia classica come un vecchio con barba e capelli bianchi seduto su una nuvoletta), ha dato all’uomo la possibilità di conoscerlo, ma molti non ci arrivano in una sola vita. Partono da lontano o partono in condizioni difficili. Un bambino che nasce in un quartiere malfamato di una città degradata, o in un villaggio africano, o in India, non ha le stesse possibilità di un bambino che nasce in una famiglia agiata, religiosa, di una grande città occidentale! Ci sono situazioni oggettive che non ti aiutano. Mi sembra plausibile il discorso della reincarnazione. Si hanno tante altre possibilità di tornare, dipende soltanto da noi, dalla rapidità con la quale impariamo le lezioni della vita.

Thomas: Voglio credere che Dio dia a ogni bambino la possibilità di conoscerlo in questa vita. Non è un vantaggio, dal punto di vista spirituale, nascere in una famiglia agiata d’Occidente!

Anna: In India trovo più gioia, più dolcezza che in Occidente. Voglio raccontarti l’incontro con una lebbrosa, la storia di una fotografia mancata. Ero a Varanasi, città sacra sulle rive del Gange. Avevo girato con il taxi tutto il giorno alla ricerca della casa di Lahiri Mahasaya, il santo yoghi, che ha avuto una famiglia, dei figli, ha lavorato in un ufficio come un semplice mortale. Avevo comprato molti libri e non mi era rimasto in tasca che qualche centesimo. Mi ero fermata per vedere un tempio. Con molta discrezione si avvicinò una giovane donna che teneva tra i due moncherini fasciati una ciotola di latta per le elemosine. Le diedi gli ultimi spiccioli rimasti e proseguii il cammino, portandomi dentro il suo sorriso, il suo sguardo luminoso e raggiante.
   Non riuscivo a dimenticarla ed ero rammaricata di non averle potuto dare di più. I negozi erano chiusi, le banche erano chiuse. Non potevo cambiare i travellers cheque. Ci fermammo all’università di Varanasi. L’autista del taxi incontrò un suo amico e collega e gli chiese un prestito per me. Con cento rupie in mano tornai dove avevo lasciato la donna. La ricordavo giovanissima, con quel suo sorriso dolcissimo. Mentalmente mi dicevo: Devo rivederla perché possa darle un piccolo aiuto, perché il nostro incontro non sia stato vano.
   Sedute sulle scale del tempio c’erano due donne. Non riuscivo più a ricordare il suo volto, perché mi era rimasto impresso soltanto il suo sguardo, quel suo sorriso così luminoso che l’aveva resa ai miei occhi bellissima e giovanissima. Aveva invece il volto segnato. Si avvicinò di nuovo, le misi nella ciotola le cento rupie e lei mi restituì lo stesso identico sorriso. Una rupia e cento rupie erano per lei la stessa cosa, aveva accettato con sereno distacco le due offerte. Eppure per lei quella era una cifra considerevole. Ci disse che era sposata e aveva un bambino di tre anni.
   Questo incontro è stato per me una grande lezione di vita. Noi occidentali abbiamo tutto e siamo infelici e disperati, lei non aveva nulla eppure emanava una grande gioia interiore. Avrei voluto fissare con la macchina fotografica quel suo volto radioso ma non ho osato farlo per rispetto della sua persona e della sua malattia. Avrei dovuto abbracciarla, ma non ho avuto il coraggio di Madre Teresa di Calcutta che curava i lebbrosi. Forse ero soltanto una generosa turista occidentale che, per lavarsi la coscienza di fronte alla sofferenza altrui, dà un’elemosina più consistente. Mi sono resa conto che quello che io avevo dato a lei era ben poco di fronte alla lezione di vita che questa donna mi aveva regalato.

Thomas: Le donne indiane mi hanno insegnato la grande dignità umana che una persona può conservare anche in condizioni di soggezione e di estrema povertà. L’India è ancora una società patriarcale, e lì come altrove nel mondo, la “povertà è donna”. Eppure vedo con meraviglia la dignità con cui le donne, specialmente in campagna, affrontano la durezza e la fatica dell’esistenza quotidiana, e conservano la propria libertà interiore in uno stato di inferiorità sociale.
   Vorrei parlarti di padre Bede Griffiths, che ho incontrato a Roma nel 1979; negli anni seguenti ho passato lunghi periodi con lui in India. Era un’icona dell’uomo saggio, riconosciuto tale in India come in Occidente. Si formò nella vita di preghiera e di meditazione all’abbazia benedettina di Prinknash in Inghilterra, da dove partì per l’India nel 1955. Prima di incontrarlo l’avevo conosciuto attraverso i suoi libri, specialmente l’autobiografia The Golden String (“Il filo d’oro”) che racconta la sua conversione al cattolicesimo, per certi versi simile alla mia.
   È stato importante per tutti e due il fatto che capissimo, sin dal nostro secondo incontro, nel 1984 a Shantivanam, che io non sarei mai diventato un suo discepolo, né lui sarebbe stato il mio guru. Non dicemmo una sola parola in merito; fu un’intesa silenziosa. La cosa che mi stupì in seguito fu l’estremo rispetto che mostrava nei miei riguardi. Evidentemente io gli mostravo grande riguardo, ma così profonda era la sua umiltà, che mai in sua presenza ho sentito la minima soggezione. Padre Bede aveva il dono di accogliere le persone come se fossero in quel momento le uniche al mondo. Durante la mia prima permanenza all’ashram mi conferì l’iniziazione al sannyasa, il monacato indù, e mi fece vestire i panni arancione come quelli che portava lui.     



[i]I Giovanni 4,18; sull’anacoreta suor Nazarena, vedi: Thomas Matus, Nazarena, una monaca-reclusa nella comunità camaldolese (Edizioni Camaldoli—Pazzini, 1998).

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