I
tre corpi
Anna: Nirvana, Samadhi,
Illuminazione, parole diverse per esprimere quello stato di perfetta unione e armonia tra coscienza individuale e coscienza
universale, cioè l’ estasi, la
beatitudine sperimentata dai santi. Per uscire dal ciclo delle rinascite
ci vogliono centinaia, forse migliaia d’incarnazioni, poi — secondo i testi di
yoga — si passa nel mondo astrale e infine in quello causale. Per il cristiano,
invece, c’è una sola vita e la dottrina non prevede l’abbandono progressivo dei
tre corpi: il corpo eterico o fisico, il corpo astrale o emotivo e il
corpo–idea o causale. Il corpo fisico dipende dal cibo e si distrugge con la
morte; quello astrale dipende dall’energia, dalla volontà e dall’evoluzione del
pensiero e il terzo corpo, quello causale, dipende dalla saggezza e dalla
felicità. Gli ultimi due corpi rimangono legati insieme dai desideri e dal
karma non consumato. E sono proprio i desideri che ci legano alla terra e ci
spingono a reincarnarci. ParamahansaYogananda fa una sottile distinzione tra
Spirito e anima. Lo Spirito è Gioia sempre nuova; l’anima ne è il riflesso
individualizzato. Quando tutti i desideri sono consumati con la meditazione, i
tre corpi–prigione si dissolvono e l’anima diviene puro Spirito.
Thomas: A monte di queste
sottili distinzioni c’è un doppio discorso: da un lato il discorso mitico delle
tradizioni indiane e dall’altro il discorso dell’esperienza, frutto della
pratica di yoga e di meditazione. Distinguiamo il mito della reincarnazione dal
tema dei tre corpi. Nell’Autobiografia,
Yogananda affronta quest’ultimo raccontando un’esperienza in cui incontra il
guru, Sri Yukteswar, deceduto da poco. Il guru spiega che i tre corpi
corrispondono ai tre mondi che costituiscono il creato. Il pensiero indiano ha
sempre a che fare con le triadi. Si può contrastare il triadismo del pensiero
indiano con la dialettica bipolare e la tendenza generale al bipolarismo se non
al dualismo nel pensiero occidentale.
Anna: Anche nel Cristianesimo
c’è il concetto della Trinità.
Thomas: Sí, perché il
cristianesimo è universale, non riducibile ai parametri del pensiero
occidentale. Anzi il cristianesimo è più connaturale con l’India che non con
l’Occidente attuale. Comunque, di triadi ce ne sono tante nel pensiero indiano.
Anna: La più nota Brahma,
Vishnu, Shiva, in altre parole Colui che crea, Colui che conserva e Colui che
distrugge o, sarebbe meglio dire, che rigenera. Rappresentano i tre aspetti
dell’immanenza di Dio nella creazione.
Thomas: Siamo sempre nel campo
del mito, mentre il discorso sui tre corpi si muove nel campo della profonda
esperienza di sé, frutto delle pratiche yoga. Lo yoghi scopre la
stratificazione della propria natura: il corpo materiale è avvolto
dall’involucro fatto di energia vitale (prana)
e da quello fatto di pensiero. Secondo il tantrismo, soprattutto nella scuola
del Kashmir di mille anni fa, abbiamo anche un quarto corpo, perché là dove ci
sono tre, c’è sempre un quarto che li trascende. Il quarto corpo s’identifica
con lo stato supremo che, appunto, si chiama turiya, letteralmente “il quarto”, sinonimo di samadhi, l’ultimo traguardo della meditazione. Nel pensiero
tantrico dell’India, il “quarto corpo”, quello trascendente, è immanente nei
“tre corpi” dell’essere umano. Lo yoghi tantrico non cerca di uscire dal corpo
“carcere” ma si dirige verso il centro, dove scopre il corpo al di là dei tre
corpi, ossia l’unità al di là della molteplicità.
Anna: La progressiva
spiritualizzazione ci porta ad abbandonare i tre corpi finché non ci immergiamo
definitivamente nell’Energia Cosmica, nell’Assoluto, l’onda che si annulla
nell’Oceano. Questo è previsto anche nel tantrismo. Una bella immagine è quella
di un’anfora piena d’acqua immersa nel mare. L’acqua dentro e fuori è la
stessa, ma soltanto quando il recipiente si rompe i due liquidi si mescolano.
Thomas: “Immersione” e
“annullamento” fanno parte del gergo comune a tutti i mistici. Non voglio
perdermi in questioni tecniche e filosofiche. Nel sogno raccontato nell’Autobiografia, il guru risuscitato
afferma che l’anima non perde la propria individualità, divenendo Spirito. Così
insistono anche i mistici cristiani. Torniamo alla nostra questione di prima,
se lo yoga può trovare posto nel cristianesimo e nella Chiesa.
Anna: Riconosci dunque che la
Chiesa sta soltanto adesso diventando più tollerante nei confronti dello yoga?
Quando sei diventato monaco benedettino e hai continuato a praticare il Kriya
Yoga sapevi di fare qualcosa di non propriamente ortodosso?
Thomas: Quando ho cominciato a
praticare yoga e a meditare, non appartenevo a nessuna Chiesa! Poi, diventato
monaco cattolico, ho sentito la necessità di operare un discernimento. Mi è
sembrato che si poteva nascondere persino un’illusione diabolica sotto lo yoga.
Era un dubbio e io devo dubitare — mi chiamo Tommaso, no? I periodi in cui ho
smesso di praticare il Kriya Yoga sono stati momenti di distacco per riflettere
sull’esperienza. Poi sono tornato a praticarlo. Non ho mai interrotto per più
di due o tre anni.
Anna: A distanza di tanti anni
dovresti essere cambiato profondamente. Yogananda parla di questa tecnica come
della più efficace e più rapida per raggiungere la realizzazione. Ti senti
diverso rispetto agli altri monaci che non fanno questo tipo di meditazione?
Thomas: Più interiorizzato
senza dubbio, e più consapevole anche. A volte trovo difficile ammettere a me
stesso quello che riesco a intuire a livello extra sensorio. Parlo d’intuito
profondo, di comunicazione telepatica, di chiaroveggenza. Di queste cose ho
sempre dubitato, ma è solo una diffidenza terapeutica per non cadere nella
presunzione.
Anna: Tutti i grandi yoghi,
secondo le scritture, devono saper ignorare i poteri, le siddhi, che si acquistano con la meditazione, proprio per non
gonfiare l’Ego, per non perdersi nei giochi di prestigio dimenticando il fine
ultimo, l’unione con Dio. Hai avuto anche delle esperienze mistiche?
Thomas: Preferisco dire che
Dio mi ha dato la consapevolezza della sua presenza, ma anche di altre
presenze, come quella di mio padre. Egli ha cominciato ad apparirmi
interiormente nove anni dopo la sua morte; adesso più di rado. L’ultima volta è
stata in India. Ero appena arrivato all’ashram di Shantivanam, stavo a letto
con gli occhi chiusi quando l’ho visto, come se guardassi una diapositiva
luminosa, a colori. Lui sorrideva e mi guardava. A volte, invece, lo vedo di
semi profilo. Naturalmente ha una grande importanza per me. Non ho mai avuto
una visione di Gesù Cristo, né della Vergine, soltanto un paio di sogni su
Yogananda. Certamente sono diventato più intuitivo. Più saggio? La saggezza è
una cosa seria, impegnativa; non posso presumere di averla raggiunta.
Anna: A distanza di
cinquant’anni puoi dire che il Kriya Yoga ha aiutato il tuo cammino di monaco
cristiano? Lo consiglieresti ai tuoi confratelli?
Thomas: Chi è così povero di
qualità morali e spirituali com’ero io deve per forza praticare il Kriya Yoga;
ci vuole qualcosa di potente! Per dire che non è un merito l’averlo praticato.
Lo diceva anche Yogananda. Quando gli domandavano se era un “realizzato”,
evitava il discorso. Io non posso fare diversamente da lui, anzi devo fare di
più, perché sono ancora lontano dalla piena “realizzazione”.
Anna: Tutti i testi, sia
induisti sia buddhisti, parlano del terzo occhio, la stella a cinque punte
inscritta in un cerchio d’oro e circondata da un altro cerchio azzurro
opalescente. Molti anni fa, in un periodo di dolorosa convalescenza, mentre
meditavo mi apparve improvvisamente la stella a cinque punte di cui tanto avevo
sentito parlare. Notai subito che aveva una particolarità, mancavano le due
punte inferiori. Quando ne parlai con Swami Sharananda Giri, all’epoca
responsabile dell’ashram dell’SRF di Dwarahat, sull’Himalaya, rispose con la sua
garbata ironia “Volevi aggiungere tu con la matita le due punte”? Se la stella
rappresenta l’archetipo dell’uomo, la testa, le due braccia, e le due gambe,
certamente a me mancavano i piedi e mancano tuttora. E questo spiega forse
perché io mi senta così sradicata.
Thomas: Dal tono ironico della
sua risposta mi parrebbe un maestro molto severo.
Anna: Swami Sharananda Giri è
una delle persone più belle che io abbia mai incontrato. Passava giornate
intere accanto a noi facendoci dono della sua profonda saggezza. Ex alto
ufficiale dell’esercito indiano aveva partecipato alla seconda guerra mondiale
al seguito dell’esercito inglese, ed era stato anche in Italia, nel napoletano.
Parlava volentieri degli italiani che aveva incontrato, semplici e generosi.
Ricordava ancora qualche parola. A cinquantacinque anni lasciò la moglie e i
due figli per dedicarsi unicamente a Dio e si fece monaco nell’ordine della
SRF. Era severo e con me lo fu moltissimo nel nostro primo incontro. Mi
rimproverava per qualsiasi cosa, finché una sera andai nella mia piccola camera
spartana, una branda, un tavolinetto, una sedia, e scoppiai a piangere.
Pensavo, ho attraversato il mondo per venire fin qui, ho fatto dodici ore di
taxi, prima tra affollate e polverose città indiane, poi inerpicandomi su
tortuose e pericolose strade di montagna, per essere trattata male! Poi capii
che dovevo smetterla con il mio vittimismo e con la mia vulnerabilità. La mia
anima non può essere toccata da nulla. Solo l’ego può essere ferito. E fu
subito grande amore e stima reciproca.
Per arrivare al piccolo villaggio di
Dwarahat si attraversano le catene dell’Himalaya, fino a duemila metri di un
verde intenso. Non si è lontani dai confini con il Tibet e in linea d’aria con
il monte Kailash, sacro agli indù, ai buddhisti, ai giainisti e alla religione
primitiva bon. L’ashram di Yogananda,
che comprende anche una scuola elementare gratuita per i bambini del villaggio,
è meta di pellegrinaggio per quanti vogliono visitare le grotte di Babaji,
l’immortale avatara, di cui parla Yogananda nella sua autobiografia. Per
arrivare alla grotta, bisogna prima raggiungere con la macchina una radura,
un’ora di viaggio dall’ashram, per poi salire a piedi per un’altra ora e mezza.
La sosta è breve perché bisogna tornare indietro e c’è sempre il pericolo di un
monsone in arrivo. Ma Swami Sharananda Giri ci faceva partire equipaggiati,
ombrelli e giacconi, oltre a qualcosa da mangiare, chappati e frutta. Durante
il cammino a piedi lungo il viottolo di montagna, fangoso e con il rischio di
essere oggetti di attenzione da parte di qualche sanguisuga, si incontrano
soltanto due o tre case di contadini con la stalla per gli animali. In quel
posto deserto, ai confini del mondo, sul tetto delle case spiccava l’antenna
della televisione!
Thomas: Non sono mai arrivato
fin lassù, le mie permanenze in India sono state quasi tutte al sud, nel Tamil
Nadu, che certo non manca di persone di valore come Swami Sharananda. È di
Madras uno dei santi dell’induismo, che tu hai visto perché era sul podio con
me ad Assisi nel 1994, quando tu ed io ci siamo conosciuti. Parlo di Swami
Chidananda, nato nel 1916 e divenuto monaco nel 1943 sotto la guida del grande
Swami Sivananda Saraswati, fondatore della Divine
Life Society. L’ho incontrato per la prima volta nel 1979 a Zinal in
Svizzera, durante un convegno dell’Unione europea dello Yoga. Dovevo tenere una
conferenza e, arrivato alla sala del convegno, l’ho trovata gremita di persone
che trattenevano Swami Chidananda con le loro domande. Mi sono messo in fondo
alla sala ad ascoltare. A un certo punto si è accorto della mia presenza,
riconoscendomi per l’abito monastico che vestivo. Ha subito interrotto, si è
alzato ed è venuto verso di me. Mi ha abbracciato con grande calore e,
sorridendo, si è scusato per aver ritardato l’inizio della mia conferenza. Che
splendida lezione di umiltà mi fece in quel momento! Una lezione di amicizia,
di vera fratellanza, poiché mi ha fatto sentire che l’aver professato i voti
monastici ci ha resi confratelli nel grande Ordine universale dei rinunzianti
di cui parlava Henri Le Saux. L’ho rivisto tre o quattro volte, in varie parti
del mondo, è scomparso nel 2008 a novantadue anni.
Nessun commento:
Posta un commento