L’ascesi del monaco e dello
yoghi
Anna: La Bhagavad Gita è il vangelo degli indù, il libro che raccoglie la
parte essenziale della filosofia yoga. In effetti, lo yoga non è una religione
nel senso tradizionale, è una scienza spirituale che aiuta l’uomo a raggiungere
la coscienza universale. Se la funzione delle religioni è di restaurare il
rapporto tra l’uomo e la sua fonte cosmica, lo yoga è la scienza pratica, il
cuore nascosto di tutte le religioni. Sono precetti ed esercizi che può
eseguire chiunque, a prescindere dal suo credo religioso. Al limite anche un
agnostico potrebbe fare, per esempio, il Kriya Yoga o seguire il Bhakti Yoga,
lo Yoga dell’amore, o il Karma Yoga, lo Yoga dell’azione senza attaccamento.
Questa vita può essere per noi un’occasione preziosa per trascendere la nostra
limitata esistenza e raggiungere quello stato di pienezza, di gioia, di pace
perfetta che si dovrebbe raggiungere quando si risveglia il Divino che è in
noi. E per sottolineare che gli uomini adorano lo stesso Dio sotto nomi
diversi, Yogananda ripeteva: “Oriente e Occidente dovranno distruggere per
sempre le divisioni meschine nelle case di Dio. Raggiungendo la realizzazione
del Sé con lo Yoga, gli uomini sapranno di essere tutti figli dell’unico
Padre”.[i]
Thomas: La Bhagavad Gita segna un passo avanti
nell’evoluzione del pensiero indiano. Siamo probabilmente alla fine del terzo
secolo avanti Cristo. L’imperatore Ashoka, avendo unificato quasi tutto il
Subcontinente in un unico impero, si convertì al buddhismo. Fu il momento di
trionfo per i bhikkhu, i monaci
buddhisti, con Ashoka ebbero il loro “Costantino”. Però la grandezza di Ashoka
sta nell’aver fondato il primo regime “tollerante” della storia. L’imperatore
buddhista lasciava piena libertà all’induismo, che arrivò a esprimere il meglio
di sé nella Bhagavad Gita. I Decreti
di Ashoka garantivano la libertà religiosa a tutte le diverse fedi.
Anna: L’uomo scopre il divino
che è in sé. E non importa il nome che noi usiamo: Essere Supremo, Nirvana, Satori, Brahma, Allah,
Jahweh, Elohim. Ciò che è importante è utilizzare questo breve pellegrinaggio
sulla terra per cercare un collegamento con Dio e proseguire in quella
direzione. È questo, mi pare, il senso del messaggio di Paramahansa Yogananda.
Un forte richiamo alla propria interiorità, a scoprire il Sé, a superare
steccati e divisioni. Lui non proponeva dogmi e non pretendeva atteggiamenti
fideistici, ciechi ma offriva ai discepoli le tecniche per entrare in contatto
con Dio. Poi diceva, lavorate, seguite i miei insegnamenti con devozione e
disciplina e avrete la prova di ciò che dico. Quindi, non è necessario isolarsi
in una caverna. Anzi, il monaco zen vietnamita Thich Nhat Hanh che ho avuto la
fortuna di incontrare, molto amato dagli occidentali per il suo carisma e la
sua semplicità, dice che è possibile inserire la meditazione nella nostra vita
quotidiana. Molti pensano che la meditazione sia soltanto statica, ma secondo
Thich Nhat Hanh si può meditare in ogni momento, camminando, guidando l’auto.
Anche cucinare, bere il the può essere un atto di meditazione durante il quale
si può toccare la vita in profondità. Nel contesto buddhista meditare significa
vivere nel presente, “qui e ora”, perché la vita si assapora soltanto quando
c’è consapevolezza.
Thomas: La meditazione ci apre
al trascendente in ogni atto umano. È una disciplina cui non deve mai mancare
la devozione, l’affetto del cuore. Su questo punto sono perfettamente d’accordo
con Yogananda. La stessa insistenza sulla via del cuore l’ho trovata anche
negli scritti del guru di Yogananda, Swami Sri Yukteswar.
Anna: Che era severo e
austero. Era chiamato Jnanavatar, Incarnazione della Saggezza. Lui ebbe il
compito di preparare Paramahansa Yogananda alla sua missione spirituale, quella
di diffondere il Kriya Yoga nel mondo.
Thomas: Severo e austero, ma
anche molto umano. Sri Yukteswar era un mistico concreto, con i piedi per
terra. Non permetteva ai discepoli di godersi le facili illusioni della
spiritualità adolescenziale. Gli adolescenti possono apparire molto spirituali,
ma a volte è soltanto il gonfiarsi dell’ego che li fa galleggiare in
superficie. Se non ricevono una formazione all’oggettività e alla concretezza,
non fanno progressi.
Anna: Krishna nella Bhagavad Gita dice che né l’austerità,
né l’isolamento aiutano il sadhu, il
“perfetto” che vive di privazioni nelle caverne dell’Himalaya, a raggiungere
Dio. Anzi, in un altro passo, è ancora più esplicito, “Lo Yoghi è più grande
degli asceti che si sottopongono alla disciplina corporea, più grande anche di
coloro che seguono il sentiero della saggezza, o il sentiero dell’azione: sii
tu, o Arjuna, uno Yoghi!” Per ottenere la realizzazione è necessario, quindi,
raggiungere l’armonia, l’equilibrio nella vita. Mi sembrava, invece, di aver
capito che ti fosse più congeniale una
vita monacale austera, d’isolamento, simile, per intenderci, a quella dei padri
del deserto.
Thomas: In parte è vero,
m’ispiravano queste figure monastiche, insieme con i racconti degli eremiti
dell’Himalaya nell’Autobiografia di
Yogananda. Ammiro altri personaggi raccontati da Yogananda, specialmente il
guru di Sri Yukteswar, Lahiri Mahasaya.
Anna: Lahiri Mahasaya era un
padre di famiglia. Lavorava in un ufficio come contabile, nel dipartimento del
genio militare del governo inglese; durante il suo servizio ottenne anche diverse
promozioni. E per questo incarico fu costretto spesso a trasferirsi da una
città all’altra. A diciotto anni sposò una giovane ed ebbe quattro figli, due
maschi e due femmine. A trentatré anni incontrò il suo guru, Babaji, ed ebbe
l’iniziazione al Kriya Yoga. Lahiri Mahasaya è l’esempio concreto, citato più
volte da Yogananda, per dimostrare che si può diventare yoghi anche facendo una
vita normale, anzi raggiungendo il pieno successo nel proprio lavoro.
Thomas: Leggendo per la prima
volta l’Autobiografia di uno Yoghi,
mi sono immedesimato con il giovane Yogananda novizio nell’ashram di Sri
Yukteswar. Questo sentirmi in qualche modo nel corpo dell’altro, il vedere
attraverso i suoi occhi, è un’esperienza che ho fatto varie volte nella mia
vita. Ne rimango sorpreso tutte le volte che mi succede. Con Yogananda ho
vissuto il discepolato; ho sentito il calore, l’odore, la tessitura dell’India
attraverso i suoi sensi.
Due anni dopo ho scoperto i libri di un
altro monaco, l’americano Thomas Merton. Poeta e romanziere, da giovane
scapestrato si convertì al cattolicesimo, si fece monaco trappista e poi
eremita. Di lui ho letto un volume di meditazioni, Semi di contemplazione, e
l’anno dopo Il segno di Giona, un
diario che narra i suoi primi anni da monaco trappista, nel periodo che precede
e segue la pubblicazione de La montagna
dalle sette balze, che ebbe un successo strepitoso. Quest’ultimo libro —
come letteratura, la cosa migliore che Merton abbia scritto — l’ho letto dopo
qualche anno, quando ero già in grado di capire che l’autore non era del tutto
sincero.
Anna: In che modo?
Thomas: Ogni volta che, da
cattolico, non ho riconosciuto i miei dubbi, quando ho cercato rifugio dai
dubbi in una conformità rigida con le norme esterne, quando ho cercato di dimenticarmi
della verità e della bontà che ho trovato fuori della Chiesa cattolica, sono
stato falso di fronte alla grazia della mia conversione. Leggendo Thomas
Merton, ho partecipato soprattutto alle sue emozioni mentre si preparava
all’ordinazione sacerdotale e celebrava le sue prime Messe. Il senso del
mistero eucaristico, della presenza dell’Uomo–Dio sotto le specie del pane,
l’ho avuto da Merton senza aver creduto nell’Eucaristia come dogma; mi bastava
che ci credesse Merton.
Anna: È questa esperienza
intensa che poi ti ha fatto scegliere, ti ha convinto che il cattolicesimo era
la tua strada?
Thomas: È stato lo Spirito
santo, qualche angelo, l’anima di César Franck, i libri di Merton — non saprei.
Fu un fatto del tutto soprannaturale, una scelta istantanea, con un prima e un dopo, ma senza un presente. Fu un
attimo di eternità. Stavo meditando davanti alle immagini di Yogananda e dei
suoi guru. Era la sera del venerdì 24 giugno 1960. A un certo punto ho capito
che dovevo accettare la Chiesa cattolica come mio Guru. Allora ho chiuso le
immagini dentro un cassetto, con rispetto e riverenza, perché ormai stavo da
un’altra parte, e mi sono messo a pregare da cristiano. Ho cominciato a
recitare i salmi, sempre con il senso forte dell’interiorità che avevo imparato
meditando e praticando lo yoga. Non volevo perdere quel senso della presenza di
Dio che avevo già sperimentato ed ho accettato il fatto che non avrei più
goduto di quelle consolazioni spirituali che avevo avuto con Yogananda.
Anna: Credo che sia molto più
consolatoria la fede cattolica. Basta confessarsi e le colpe vengono
cancellate. Basta un pentimento prima di morire e si è salvi. Con lo yoga sei
tu che devi lavorare sodo per raggiungere la meta. Non ci sono scorciatoie, non
ci sono consolazioni, non ci sono sconti di pena. Comunque, hai continuato a
praticare il krya, la tecnica di meditazione insegnata da Yogananda?
Thomas: A quel punto ho interrotto,
per lasciare spazio unicamente allo Spirito di Dio. Non volevo presumere nulla,
né ostacolare il lavoro che Dio stava facendo in me. Abitavo da mia madre a
Honolulu nelle Hawaii. Lei deve essere rimasta davvero perplessa, la sera mi
aveva visto seduto sul letto nella posizione del loto, e il mattino dopo in
ginocchio accanto al letto.
Ho
fatto come Ramakrishna, un santo indù della metà dell’Ottocento. Per un certo
periodo Ramakrishna voleva pregare da cristiano. Smise di andare nel tempio, di
cantare gli inni dei Veda, di
svolgere i suoi riti di bramino. Ogni giorno si metteva in ginocchio a pregare
Gesù e il Padre celeste, almeno come poteva, perché era semianalfabeta. Aveva
imparato al massimo il Padre Nostro. Alla fine raccontò di aver visto Gesù.
Quando decisi di abbracciare la Chiesa capii che dovevo seguire l’esempio di
Ramakrishna. Disse Ramakrishna con la sua faccia aperta, con i suoi occhi
estatici: “Ho visto Gesù Cristo, mi ha abbracciato, mi ha baciato!”. Chi può
negare che l’abbia visto veramente?
Anna: Perché non dovrebbe
averlo visto? Non è certo prerogativa dei cattolici vedere il Cristo! Non ci
sono santi e mistici nelle altre religioni?
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