giovedì 4 ottobre 2018

L’ascesi del monaco e dello yoghi


L’ascesi del monaco e dello yoghi

Anna: La Bhagavad Gita è il vangelo degli indù, il libro che raccoglie la parte essenziale della filosofia yoga. In effetti, lo yoga non è una religione nel senso tradizionale, è una scienza spirituale che aiuta l’uomo a raggiungere la coscienza universale. Se la funzione delle religioni è di restaurare il rapporto tra l’uomo e la sua fonte cosmica, lo yoga è la scienza pratica, il cuore nascosto di tutte le religioni. Sono precetti ed esercizi che può eseguire chiunque, a prescindere dal suo credo religioso. Al limite anche un agnostico potrebbe fare, per esempio, il Kriya Yoga o seguire il Bhakti Yoga, lo Yoga dell’amore, o il Karma Yoga, lo Yoga dell’azione senza attaccamento. Questa vita può essere per noi un’occasione preziosa per trascendere la nostra limitata esistenza e raggiungere quello stato di pienezza, di gioia, di pace perfetta che si dovrebbe raggiungere quando si risveglia il Divino che è in noi. E per sottolineare che gli uomini adorano lo stesso Dio sotto nomi diversi, Yogananda ripeteva: “Oriente e Occidente dovranno distruggere per sempre le divisioni meschine nelle case di Dio. Raggiungendo la realizzazione del Sé con lo Yoga, gli uomini sapranno di essere tutti figli dell’unico Padre”.[i]

Thomas: La Bhagavad Gita segna un passo avanti nell’evoluzione del pensiero indiano. Siamo probabilmente alla fine del terzo secolo avanti Cristo. L’imperatore Ashoka, avendo unificato quasi tutto il Subcontinente in un unico impero, si convertì al buddhismo. Fu il momento di trionfo per i bhikkhu, i monaci buddhisti, con Ashoka ebbero il loro “Costantino”. Però la grandezza di Ashoka sta nell’aver fondato il primo regime “tollerante” della storia. L’imperatore buddhista lasciava piena libertà all’induismo, che arrivò a esprimere il meglio di sé nella Bhagavad Gita. I Decreti di Ashoka garantivano la libertà religiosa a tutte le diverse fedi.

Anna: L’uomo scopre il divino che è in sé. E non importa il nome che noi usiamo: Essere Supremo, Nirvana, Satori, Brahma, Allah, Jahweh, Elohim. Ciò che è importante è utilizzare questo breve pellegrinaggio sulla terra per cercare un collegamento con Dio e proseguire in quella direzione. È questo, mi pare, il senso del messaggio di Paramahansa Yogananda. Un forte richiamo alla propria interiorità, a scoprire il Sé, a superare steccati e divisioni. Lui non proponeva dogmi e non pretendeva atteggiamenti fideistici, ciechi ma offriva ai discepoli le tecniche per entrare in contatto con Dio. Poi diceva, lavorate, seguite i miei insegnamenti con devozione e disciplina e avrete la prova di ciò che dico. Quindi, non è necessario isolarsi in una caverna. Anzi, il monaco zen vietnamita Thich Nhat Hanh che ho avuto la fortuna di incontrare, molto amato dagli occidentali per il suo carisma e la sua semplicità, dice che è possibile inserire la meditazione nella nostra vita quotidiana. Molti pensano che la meditazione sia soltanto statica, ma secondo Thich Nhat Hanh si può meditare in ogni momento, camminando, guidando l’auto. Anche cucinare, bere il the può essere un atto di meditazione durante il quale si può toccare la vita in profondità. Nel contesto buddhista meditare significa vivere nel presente, “qui e ora”, perché la vita si assapora soltanto quando c’è consapevolezza.

Thomas: La meditazione ci apre al trascendente in ogni atto umano. È una disciplina cui non deve mai mancare la devozione, l’affetto del cuore. Su questo punto sono perfettamente d’accordo con Yogananda. La stessa insistenza sulla via del cuore l’ho trovata anche negli scritti del guru di Yogananda, Swami Sri Yukteswar.

Anna: Che era severo e austero. Era chiamato Jnanavatar, Incarnazione della Saggezza. Lui ebbe il compito di preparare Paramahansa Yogananda alla sua missione spirituale, quella di diffondere il Kriya Yoga nel mondo.

Thomas: Severo e austero, ma anche molto umano. Sri Yukteswar era un mistico concreto, con i piedi per terra. Non permetteva ai discepoli di godersi le facili illusioni della spiritualità adolescenziale. Gli adolescenti possono apparire molto spirituali, ma a volte è soltanto il gonfiarsi dell’ego che li fa galleggiare in superficie. Se non ricevono una formazione all’oggettività e alla concretezza, non fanno progressi.

Anna: Krishna nella Bhagavad Gita dice che né l’austerità, né l’isolamento aiutano il sadhu, il “perfetto” che vive di privazioni nelle caverne dell’Himalaya, a raggiungere Dio. Anzi, in un altro passo, è ancora più esplicito, “Lo Yoghi è più grande degli asceti che si sottopongono alla disciplina corporea, più grande anche di coloro che seguono il sentiero della saggezza, o il sentiero dell’azione: sii tu, o Arjuna, uno Yoghi!” Per ottenere la realizzazione è necessario, quindi, raggiungere l’armonia, l’equilibrio nella vita. Mi sembrava, invece, di aver capito che ti fosse più congeniale  una vita monacale austera, d’isolamento, simile, per intenderci, a quella dei padri del deserto.

Thomas: In parte è vero, m’ispiravano queste figure monastiche, insieme con i racconti degli eremiti dell’Himalaya nell’Autobiografia di Yogananda. Ammiro altri personaggi raccontati da Yogananda, specialmente il guru di Sri Yukteswar, Lahiri Mahasaya.

Anna: Lahiri Mahasaya era un padre di famiglia. Lavorava in un ufficio come contabile, nel dipartimento del genio militare del governo inglese; durante il suo servizio ottenne anche diverse promozioni. E per questo incarico fu costretto spesso a trasferirsi da una città all’altra. A diciotto anni sposò una giovane ed ebbe quattro figli, due maschi e due femmine. A trentatré anni incontrò il suo guru, Babaji, ed ebbe l’iniziazione al Kriya Yoga. Lahiri Mahasaya è l’esempio concreto, citato più volte da Yogananda, per dimostrare che si può diventare yoghi anche facendo una vita normale, anzi raggiungendo il pieno successo nel proprio lavoro.

Thomas: Leggendo per la prima volta l’Autobiografia di uno Yoghi, mi sono immedesimato con il giovane Yogananda novizio nell’ashram di Sri Yukteswar. Questo sentirmi in qualche modo nel corpo dell’altro, il vedere attraverso i suoi occhi, è un’esperienza che ho fatto varie volte nella mia vita. Ne rimango sorpreso tutte le volte che mi succede. Con Yogananda ho vissuto il discepolato; ho sentito il calore, l’odore, la tessitura dell’India attraverso i suoi sensi.
   Due anni dopo ho scoperto i libri di un altro monaco, l’americano Thomas Merton. Poeta e romanziere, da giovane scapestrato si convertì al cattolicesimo, si fece monaco trappista e poi eremita. Di lui ho letto un volume di meditazioni, Semi di contemplazione, e l’anno dopo Il segno di Giona, un diario che narra i suoi primi anni da monaco trappista, nel periodo che precede e segue la pubblicazione de La montagna dalle sette balze, che ebbe un successo strepitoso. Quest’ultimo libro — come letteratura, la cosa migliore che Merton abbia scritto — l’ho letto dopo qualche anno, quando ero già in grado di capire che l’autore non era del tutto sincero.

Anna: In che modo?

Thomas: Ogni volta che, da cattolico, non ho riconosciuto i miei dubbi, quando ho cercato rifugio dai dubbi in una conformità rigida con le norme esterne, quando ho cercato di dimenticarmi della verità e della bontà che ho trovato fuori della Chiesa cattolica, sono stato falso di fronte alla grazia della mia conversione. Leggendo Thomas Merton, ho partecipato soprattutto alle sue emozioni mentre si preparava all’ordinazione sacerdotale e celebrava le sue prime Messe. Il senso del mistero eucaristico, della presenza dell’Uomo–Dio sotto le specie del pane, l’ho avuto da Merton senza aver creduto nell’Eucaristia come dogma; mi bastava che ci credesse Merton.

Anna: È questa esperienza intensa che poi ti ha fatto scegliere, ti ha convinto che il cattolicesimo era la tua strada?

Thomas: È stato lo Spirito santo, qualche angelo, l’anima di César Franck, i libri di Merton — non saprei. Fu un fatto del tutto soprannaturale, una scelta istantanea, con un  prima e un dopo, ma senza un presente. Fu un attimo di eternità. Stavo meditando davanti alle immagini di Yogananda e dei suoi guru. Era la sera del venerdì 24 giugno 1960. A un certo punto ho capito che dovevo accettare la Chiesa cattolica come mio Guru. Allora ho chiuso le immagini dentro un cassetto, con rispetto e riverenza, perché ormai stavo da un’altra parte, e mi sono messo a pregare da cristiano. Ho cominciato a recitare i salmi, sempre con il senso forte dell’interiorità che avevo imparato meditando e praticando lo yoga. Non volevo perdere quel senso della presenza di Dio che avevo già sperimentato ed ho accettato il fatto che non avrei più goduto di quelle consolazioni spirituali che avevo avuto con Yogananda.

Anna: Credo che sia molto più consolatoria la fede cattolica. Basta confessarsi e le colpe vengono cancellate. Basta un pentimento prima di morire e si è salvi. Con lo yoga sei tu che devi lavorare sodo per raggiungere la meta. Non ci sono scorciatoie, non ci sono consolazioni, non ci sono sconti di pena. Comunque, hai continuato a praticare il krya, la tecnica di meditazione insegnata da Yogananda?

Thomas: A quel punto ho interrotto, per lasciare spazio unicamente allo Spirito di Dio. Non volevo presumere nulla, né ostacolare il lavoro che Dio stava facendo in me. Abitavo da mia madre a Honolulu nelle Hawaii. Lei deve essere rimasta davvero perplessa, la sera mi aveva visto seduto sul letto nella posizione del loto, e il mattino dopo in ginocchio accanto al letto.
    Ho fatto come Ramakrishna, un santo indù della metà dell’Ottocento. Per un certo periodo Ramakrishna voleva pregare da cristiano. Smise di andare nel tempio, di cantare gli inni dei Veda, di svolgere i suoi riti di bramino. Ogni giorno si metteva in ginocchio a pregare Gesù e il Padre celeste, almeno come poteva, perché era semianalfabeta. Aveva imparato al massimo il Padre Nostro. Alla fine raccontò di aver visto Gesù. Quando decisi di abbracciare la Chiesa capii che dovevo seguire l’esempio di Ramakrishna. Disse Ramakrishna con la sua faccia aperta, con i suoi occhi estatici: “Ho visto Gesù Cristo, mi ha abbracciato, mi ha baciato!”. Chi può negare che l’abbia visto veramente?

Anna: Perché non dovrebbe averlo visto? Non è certo prerogativa dei cattolici vedere il Cristo! Non ci sono santi e mistici nelle altre religioni?

Thomas: Sì che ci sono. Però lascia che m’immedesimi con il dubbio del buon cattolico che rimane perplesso al sentir parlare di un santo indù che prega e medita sul Vangelo e alla fine vede Gesù. Alcuni rimangono perplessi quando dico che mi sono fatto cattolico imitando quel santo indù! Ma è stato così.       



[i]Paramahansa Yogananda, Eterna Ricerca dell’uomo (S.R.F), pag.  31. Astrolabio.

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