Il
distacco dai sensi
Anna: Nel secondo capitolo
della Bhagavad Gita Krishna dice: “I
contatti con le cose materiali, o figlio di Kunti, fanno sentire caldo e
freddo, piacere e dolore, vanno e vengono e sono impermanenti. Apprendi
soltanto a sopportarli, o Bharata”.[i] Lo
yoga ci insegna a superare la schiavitù dei sensi, a rimanere imperturbabili di
fronte a qualsiasi evento. Siamo pellegrini su questo pianeta, siamo arrivati
nudi e ce ne andremo nudi.
Thomas: Siamo ancora sul piano
moralistico. Più avanti Krishna cambia registro e comincia un discorso più
ampio e più spirituale.
Anna: Krishna, infatti,
aggiunge: “L’uomo che questi contatti non turbano, o capo di uomini, l’uomo
fermo che rimane lo stesso nel piacere e nel dolore: questo si rende adatto
all’immortalità”.[ii]
Quando si è raggiunta la calma mentale, quando si è in sintonia continua con
l’essenza divina che è in noi, nulla può turbarci.
Thomas: Il perfetto distacco,
il non turbarsi in qualsiasi circostanza è una concezione molto elevata, ma non
è qui la risposta vera della Bhagavad
Gita. Prima di rivelarsi come Dio in forma umana, Krishna recita la parte
dell’uomo religioso di tutti i tempi; si presenta come maestro di dharma, della legge morale, del dovere.
Nel corso della Gita, Krishna rivela una via che fa a meno del dharma, della “giustizia della legge”. La religione di Krishna non
consiste né nell’osservanza delle regole della casta, né nel fare il proprio
dovere, né nel distacco psicologico dalle proprie emozioni. Consiste invece
nella progressiva rottura di piani; è un cammino che non si ferma al piano
etico, anche se ci torna spesso. La logica della Gita non è quella lineare del pensiero occidentale; è un movimento
a spirale, torna spesso sui temi precedenti e anticipa quelli che saranno
elaborati più tardi. Krishna non si è ancora rivelato come Dio, eppure qualche
volta parla come Dio. Più tardi si manifesterà ad Arjuna nella forma divina[iii] e
alla fine gli prometterà il suo amore incondizionato.[iv]
Così, passo dopo passo, Arjuna impara ad andare oltre il discorso religioso
moralistico.
Anna: O più semplicemente
impara a discernere tra Maya, in
altre parole l’ignoranza, il mondo empirico illusorio, e la realtà ultima
interiore. In questo secondo capitolo Krishna affronta, con parole chiare e
inequivocabili, il problema dell’immortalità dell’anima e della reincarnazione.
“L’anima, dopo che in questo corpo è stata per la fanciullezza, la gioventù e
la vecchiaia, allora appunto realizza l’assunzione di un altro corpo. L’uomo,
fermo di spirito, non trae da ciò motivo di smarrimento”.[v] E due
pagine dopo: “Come un uomo smettendo i vestiti usati, ne prende altri di nuovi,
così proprio l’anima incarnata, smettendo i corpi logori, viene ad assumerne
altri”.[vi] In
questi due versetti non sembrano esserci dubbi su quello che Krishna intende
per reincarnazione. Sappiamo che i grandi yoghi, con l’aiuto di una tecnica
avanzata, sono in grado di lasciare coscientemente il corpo.
Thomas: Il termine italiano
“anima” è usato qui in modo improprio. È un termine teologico occidentale;
questa sovrapposizione di concetti impedisce al lettore occidentale di capire
il senso del testo. È chiaro che il lettore avrà in mente il concetto cattolico
di anima, concetto derivato dal platonismo cristiano, passando per Cartesio. In
realtà Krishna parla dell’Atman, lo
spirito unico che si manifesta in tutte le forme, tutte le vite, tutte le
vicende umane, e in ogni nascere e morire.
Anna: Infatti, più in là
Krishna afferma: “Le armi non fendono il Sé, il fuoco non lo brucia; né lo
bagnano le acque, né lo dissecca il vento. Esso è tale che non lo si può
fendere, tale da non poter essere arso, da non poter essere né bagnato né
disseccato”. “Eterno è, onnipervadente, immoto e immobile; esso è sempre
identico a sé”.[vii]
E prosegue più avanti: “Dell’uomo che è nato in verità certa è la morte; e
certa è la rinascita per quello che è morto. Di conseguenza da ciò che è
inevitabile non devi tu trarre motivo di angoscia”.[viii]
Perché, dunque, temere la morte?
Thomas: Quando la Gita parla dell’Atman che si spoglia della veste logora per indossare quella nuova,
si avvicina molto alla metafora del Salmo 102, dove il salmista dice: “Dio, tu
sei sempre lo stesso, tutte le cose le cambi come una veste logora”; qui è Dio
che riveste il cosmo, sua creatura.
Anna: Ma sono due cose
completamente diverse.
Thomas: Non completamente. Non
vedo le cose né sempre uguali né completamente diverse; vedo analogie. È questo
il mio metodo, camminare sulla lama del rasoio, e non è facile. L’espressione
della Gita l’avvicino a quella del
salmista d’Israele, senza confonderle. Il salmista parlava a Dio nella preghiera,
qui si parla dello spirito universale che anima tutte le vite.
Anna: Nella cultura orientale
l’anima è lo Spirito individualizzato, anche nella nostra cultura occidentale
esiste una sottile distinzione fra spirito e anima.
Thomas: In sanscrito si distinguono
Atman e jiva. Alcuni commentatori indù, giocando sui suoni dei due termini
in rapporto alla lingua inglese, li paragonano ad “Adam and Eve”. Eva in inglese si pronunzia Iv, e quindi l’Atman è
come Adamo che viene tentato da Iv,
da Eva. Ora, jiva è la vita
individuale, qualcosa che appartiene alla natura, ai cicli cosmici, mentre l’Atman non è mutevole, non è soggetto al
tempo. L’Atman viene irretito nelle
vite molteplici delle tante “Eva” che siamo noi viventi.
Anna: Quindi, l’Atman o il Sé è la particella divina che
vive in ognuno di noi. È il noumeno presente in noi, identico a Quello, cioè al
Brahman. Una delle massime vedantiche
più note, infatti, è “Tu sei Quello”.
[i]Cap. 2,14.
[ii]Cap. 2,15.
[iii]Cap. 11.
[iv]Cap. 18.
[v]Cap. 2,13.
[vi]Cap.
2,22.
[vii]Cap.
2,23–24.
[viii]Cap.
2,27.
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