Il
senso del dolore
Anna: Se fossi libera, potrei
rifiutare la sofferenza.
Thomas: Sei libera di seguire
una strada spirituale che ti sei scelta. Tu hai risposto di sí a Dio; per
questo hai rifiutato la sofferenza.
Anna: Altri fanno scelte
diverse. Quindi, non tutta la sofferenza porta a Dio.
Thomas: Tu hai sofferto e hai
affrontato la prova. Non sei caduta nella disperazione, e ti sei dedicata alla
meditazione, alla ricerca spirituale. Il dolore fisico ha accompagnato anche la
mia adolescenza. Rifiutavo di riconoscerlo perché mi vergognavo, quasi avessi
il fisico di un vecchio. Soffrivo dolori muscolari, di ossa e tremendi mal di
testa. Anch’io ho conosciuto momenti in cui mi sembrava impossibile vivere un
altro istante per l’intensità del dolore.
Anna: Quando molti anni fa
sono stata ricoverata più volte in ospedale, mio figlio mi veniva a trovare e
mi portava i suoi disegni colorati. Sotto ci scriveva: “Alla super mamma”.
Aveva sette anni. Appendevo quei fogli sul muro, e questo mi dava la forza di
continuare. Mi ricordo una notte. Ero sola in casa con mio figlio. Avevo dolori
atroci alla colonna vertebrale, mi ero alzata per prendere un bicchiere
d’acqua. A un certo punto mi sono ritrovata per terra, in ginocchio, mentre
dicevo piangendo: “Dio, fammi morire”. Eppure, credimi, stavo pensando: “Dio,
fammi guarire”. C’è stata una dissociazione mentale tra il mio pensiero e le
mie labbra. Ero arrivata a uno stato tale di saturazione dei farmaci che anche
gli analgesici non mi facevano più effetto, anzi mi facevano l’effetto contrario.
L’unica cosa che mi dava la forza di andare avanti, che mi teneva in vita, era
il pensiero di mio figlio che dovevo accudire, amare, sostenere. Se fossi
morta, sarebbe rimasto completamente solo.
Thomas: Tu pregavi di morire,
è perfettamente lecito chiedere di morire, quando si soffre molto.
Anna: Era soltanto
l’esasperazione della sofferenza, invocavo la morte, pur di non soffrire
ancora.
Thomas: C’era qualcosa di meno
egoistico in quella preghiera. Sei partita dal tuo desiderio di sollievo e ti
sei buttata tra le braccia di Dio. Alla fine hai accettato di non essere
sollevata dalla tua sofferenza perché c’era tuo figlio.
Anna: Si può desiderare di
morire?
Thomas: Si deve amare la vita.
Se uno vive sperando nella pienezza di vita oltre la morte, in certe
circostanze può desiderare di raggiungere quello che lo aspetta di là della
vita terrena. In genere si spera poco, come si crede poco. Qualche volta,
all’inizio del mio cammino di monaco, anch’io ho pregato di morire per
rifugiarmi in Dio, ma senza aver raggiunto quella speranza profonda e quella
purezza d’intenzione che avrebbero giustificato tale preghiera. In altre
parole: credevo nella vita eterna, desideravo vivere eternamente con Dio, ma
avevo troppa paura della vita e della sofferenze che il vivere in questo mondo
comporta. Desiderare di morire, in questo caso, sarebbe da vigliacchi.
Anna: Se è giunto il momento
di morire, si può pregare Dio di guarirti?
Thomas: Si può sempre, come si
può pregare di lasciare questa vita, purché sia la volontà di Dio. Durante la
sua ultima malattia mia nonna pregava: “Dio caro, toglimi i peccati e portami
con te”. Era implicito “Come tu vuoi”.
Anna: E nel Corano il profeta
Maometto invita i fedeli a non desiderare mai la morte ma a pronunciare questa
preghiera: “Signore, tienimi in vita finché la vita è un bene per me, e fammi
morire se per me sarebbe meglio morire”. Come si fa a capire qual è la volontà
di Dio?
Thomas: Non si tratta di
capirla; si tratta di compierla. La volontà di Dio è sempre e ovunque per il
nostro bene, per il bene di ognuno in rapporto con il bene di tutto l’Universo.
Dio vuole bene all’universo; Dio vuole il nostro bene. È sempre questa volontà
salvifica, universale ed efficace di Dio che dobbiamo compiere “come in cielo
così in terra”.
Anna: Ma un cristiano non deve
augurarsi la sofferenza per imitare il Cristo, per purificarsi? Anzi non ci
sono stati santi che pregavano di ricevere la prova della sofferenza? Si può
diventare santi anche senza soffrire atrocemente?
Thomas: Sí, senza soffrire
atrocemente e senza fare la vittima. Alcuni santi si esprimevano in quel modo,
ma non sono del tutto sicuro che il loro voler soffrire sia l’atteggiamento più
conforme al Vangelo.
Anna: Scegliere di torturarsi,
di fare penitenze, di portare il cilicio?
Thomas: Non voglio dire che
quel tipo di santo sbagliava, solo che non è l’unico modello di santità. Meglio
seguire l’esempio di santi che non cercavano di distruggere il corpo, quelli
che vivevano con armonia, con equilibrio e con un senso di gratitudine per la
vita e per la salute. Penso al beato Giovanni XXIII, l’esempio di un uomo che
viveva in armonia con la sua natura, anche con la dimensione materiale della
vita, ma aveva uno spirito di distacco, rendeva tutto a Dio e rendeva grazie di
tutto. Quindi non tutti i santi sono chiamati a seguire la medesima strada né a
vivere nella stessa maniera.
Anna: Perché non tutti hanno
lo stesso karma, si direbbe in India.
Thomas: In termini biblici
diremmo che non tutti hanno lo stesso carisma e non tutti hanno gli stessi
vizi, per cui i rimedi saranno diversi. Il vizio è una malattia dell’anima e
per guarirla bisogna praticare certe virtù. I santi praticano le virtù che
servono alla loro santificazione, alla guarigione dei loro vizi.
Anna: In tutti questi anni mi
sono sempre sentita dire dagli altri che dovevo considerarmi fortunata, perché
le persone che soffrono sono più vicine a Dio. Ed io mi sono sempre chiesta: ”Se
Dio non è vicino alle persone che soffrono?”. Se uno non sente questo sollievo
interiore, questa presenza divina che ti dà la forza di continuare? I santi
avevano la fede, per questo potevano superare tutte le afflizioni, tutte le
prove. San Francesco non vedeva i suoi malanni. La fede ti dà la forza di
andare avanti, altrimenti c’è soltanto la disperazione. Yogananda diceva che si
può vivere con un paradiso interiore, dovunque andiamo, se riusciamo a vivere
nella gioia spirituale che ci viene da un’assidua e profonda meditazione.
Thomas: Fai bene a credere
poco ai discorsi consolatori. Hai acquisito un forte senso del valore della
vita che sempre vale la pena di essere vissuta. Quanto al dolore, farei un
discorso critico sul modo in cui la scienza medica lo gestisce. Si scopre ora
che il dolore fisico e quello mentale ostacolano la guarigione. Togliendo il
dolore, il sistema nervoso centrale e il sistema immunitario riescono a
collaborare meglio e a vincere le malattie.
Anna: Il dolore, quando è intenso e prolungato, annichilisce la
persona e le sue difese. Per questo, in genere, a una malattia ne subentra
subito un’altra senza soluzioni di continuità. A volte mi capita di vivere per
mesi con la sensazione di essere arrivata al capolinea. È come se davanti a me
ci fosse un muro a sbarrarmi la strada. E in quei momenti non so se assecondare
questa sensazione di fine oppure ribellarmi alla malattia, reagire. Mi chiedo:
“ Cosa mi sta succedendo? Sto vivendo la
conclusione di una fase o è veramente arrivata la fine della vita?”. E spesso
anche i sogni sembrano indicare l’incontro con la morte. Reale o metaforica?
Allora, taglio tutti i ponti dietro di me. Vivo in un tunnel buio senza luce.
Mi è accanto soltanto la disperazione. Soffoco, piango, prego: “Padre, aiutami
a capire!”
Quando le malattie sono così lunghe,
dolorose, incomprensibili ai medici, refrattarie a ogni cura, anzi, che
peggiorano con le cure, mi chiedo: Ma se mi ritirassi in un ashram per morire
serenamente, invece di occuparmi di politica, di guerre, di stupri, di mafia?
In India la vita sembra scorrere più naturalmente. Da ragazzi si pensa allo
studio e alla formazione, poi al matrimonio e al lavoro, infine al ritiro e
alla ricerca spirituale. Nella quarta fase dell’esistenza, che coincide con la
vecchiaia, si sceglie la vita monastica. C’è una grande saggezza in questa
suddivisione dei compiti e dei ruoli. Forse sono arrivata all’epilogo del terzo
stadio della mia vita.
Thomas: Finché hai il tempo,
devi vivere. Il tempo è dono di Dio; la vita è dono di Dio.
Anna: “Fin quando respiri la
libera aria della terra, hai l’obbligo di servire con animo grato”, diceva Sri
Yukteswar. Eppure la maggior parte delle persone vive ripiegata su se stessa,
insensibile al dolore degli altri. Spesso non si chiede aiuto per timidezza,
per non disturbare, per non apparire inopportuni o soltanto perché l’altro è
disattento, avvolto su se stesso. La vera compassione, la vera empatia del bodhisattva è vivere con l’altro, vivere
nell’altro, vivere la sua sofferenza. Direi che anche tra i religiosi questa
capacità è estremamente rara. Chi pratica il Kriya Yoga dovrebbe aver affinato
questa sensibilità, ma se non è abbastanza forte finisce per caricarsi sulle spalle
i problemi degli altri senza essere in grado di aiutare nessuno. Qual è il
segno della santità?
Thomas: Non parlerei di
“segni”; parlerei degli esempi di verità e di virtù che ho visto accanto a me
nel monastero e lungo la strada dei miei itinerari in India. In questi esempi
Dio si rivela e m’invita alla fedeltà, alla trasparenza e all’attenzione verso
i fratelli e le sorelle che camminano con me e che vogliono seguire il sentiero
dei santi.
Anna: Dovresti anche guardare
quelli che camminano dietro di te e che hanno bisogno di una mano. Si può
essere talmente protesi verso la propria santità da guardare sempre in alto e
ignorare coloro che in basso, su questa terra, sono nel fango, a piangere.
Thomas: Disse Yogananda:
“Vivete per Dio solo. Rendete servizio a Lui solo. Amate solo Lui”. Era monaco
Yogananda, e io, suo fratello minore nella vita monastica, cerco di praticare
il suo consiglio. Tu stesso hai citato le parole di Rajneesh: “Se sei tu che
vai a cercare qualcuno da aiutare, una cosa è certa: non sei la persona giusta
per portare aiuto”. La capacità di “dare una mano” l’abbiamo tutti, ma ognuno
la dà secondo la propria chiamata. Medito sui modelli di santità che le
Scritture e la storia mi offrono, e cerco di imitarli seguendo la vita
monastica e contemplativa alla quale Dio mi ha chiamato.
Anna: Yogananda un giorno
viaggiando con i suoi discepoli chiese improvvisamente di fare una deviazione.
Seguendo le sue indicazioni arrivarono in un posto dove viveva un uomo
disperato. Yogananda era così in sintonia con l’universo da sentire il richiamo
di dolore di quell’uomo.
Thomas: A volte ho fatto
un’esperienza simile, che non è tanto eccezionale. Ad esempio, mi tocca di rado
rispondere al telefono a Camaldoli. Qualche volta, passando davanti alla cabina
telefonica, sento che devo rispondere e mi trovo in comunicazione con una
persona sofferente che, per la grazia di Dio, posso aiutare.
Anna: Anche Giovanni Paolo II
ha questa capacità di sentire la sofferenza degli altri. L’ho sperimentato di
persona. Molti anni fa, in uno dei tanti periodi bui della mia vita, vivevo da
nove mesi con un dolore continuo al cuore. Mi alzavo con il dolore, lavoravo con
il dolore, mi addormentavo con il dolore, sognavo sogni dolorosi e mi svegliavo
con le lacrime. Mi sembrava di impazzire e invano cercavo di concentrarmi sul
lavoro. Un giorno un gruppo di colleghi fu ricevuto dal Pontefice nella
canonica della Chiesa che si trova vicino alla sede Rai di via Teulada.
Vivevo un periodo di grande scetticismo
religioso, di grande diffidenza verso questo papa polacco, che giudicavo
conservatore e integralista. Stavo male e stavo in piedi da più di un’ora, ero
nervosa e irritata. Finalmente il papa arrivò e cominciò a stringere la mano ad
ognuno di noi. Io ero alla fine del semicerchio. Mi limitai a fare un breve
inchino porgendogli la mano; lui la strinse con forza e continuava a stringerla
mentre stava già salutando il collega che era dopo di me. Sul momento non
capii. Mi sembrò soltanto inspiegabile il suo comportamento. Più tardi mi resi
conto che il dolore che mi aveva tormentato per nove mesi era scomparso. Non
avevo fede, eppure lui aveva preso su di sé il mio dolore. Un’esperienza simile
di essere sollevata dalla sofferenza l’avevo avuta pochi mesi prima accanto a
Madre Teresa di Calcutta, ma era durata soltanto il tempo in cui ero rimasta
vicino a lei in Chiesa. La mia opinione sul papa da quel giorno, ovviamente, cambiò.
Ho capito che si può essere tradizionalisti e avere un grande carisma, essere
santi e sbagliare in quanto uomini. Mi sarebbe piaciuto potergli dire: “Grazie,
Padre”. Durante il Giubileo dei giornalisti l’ho voluto rivedere, anche se da
lontano. Camminava a stento con il bastone sul palcoscenico della Sala Nervi,
curvo, indomito. Dentro di lui s’intuiva una grande forza, un grande coraggio,
una grande passione. E rivederlo così stanco e invecchiato, ma così consapevole
del suo ruolo su questa terra, mi ha fatto una grande tenerezza, mi ha
commosso.
Thomas: Sai come diceva Gesù a
quelli che guariva: “La tua fede ti ha salvato”.
Anna: No, in quel periodo ero
agnostica. In quel momento io di fede ne avevo zero.
Thomas: Avevi poca fede, come
ne ho io, però la tua fede ti ha guarita. È stata la presenza di Dio in te,
insieme con la presenza del papa come strumento di Dio, che ti ha dato questo
sollievo, non perché tu stessi fisicamente meglio, ma perché avessi un segno
prezioso di questa divina presenza in te. Questa è la meraviglia, questo è il
vero dono che hai ricevuto con il miracolo del papa.
Nessun commento:
Posta un commento