giovedì 4 ottobre 2018

Il senso del dolore


Il senso del dolore

Anna: Se fossi libera, potrei rifiutare la sofferenza.

Thomas: Sei libera di seguire una strada spirituale che ti sei scelta. Tu hai risposto di sí a Dio; per questo hai rifiutato la sofferenza.

Anna: Altri fanno scelte diverse. Quindi, non tutta la sofferenza porta a Dio.

Thomas: Tu hai sofferto e hai affrontato la prova. Non sei caduta nella disperazione, e ti sei dedicata alla meditazione, alla ricerca spirituale. Il dolore fisico ha accompagnato anche la mia adolescenza. Rifiutavo di riconoscerlo perché mi vergognavo, quasi avessi il fisico di un vecchio. Soffrivo dolori muscolari, di ossa e tremendi mal di testa. Anch’io ho conosciuto momenti in cui mi sembrava impossibile vivere un altro istante per l’intensità del dolore.

Anna: Quando molti anni fa sono stata ricoverata più volte in ospedale, mio figlio mi veniva a trovare e mi portava i suoi disegni colorati. Sotto ci scriveva: “Alla super mamma”. Aveva sette anni. Appendevo quei fogli sul muro, e questo mi dava la forza di continuare. Mi ricordo una notte. Ero sola in casa con mio figlio. Avevo dolori atroci alla colonna vertebrale, mi ero alzata per prendere un bicchiere d’acqua. A un certo punto mi sono ritrovata per terra, in ginocchio, mentre dicevo piangendo: “Dio, fammi morire”. Eppure, credimi, stavo pensando: “Dio, fammi guarire”. C’è stata una dissociazione mentale tra il mio pensiero e le mie labbra. Ero arrivata a uno stato tale di saturazione dei farmaci che anche gli analgesici non mi facevano più effetto, anzi mi facevano l’effetto contrario. L’unica cosa che mi dava la forza di andare avanti, che mi teneva in vita, era il pensiero di mio figlio che dovevo accudire, amare, sostenere. Se fossi morta, sarebbe rimasto completamente solo.

Thomas: Tu pregavi di morire, è perfettamente lecito chiedere di morire, quando si soffre molto.

Anna: Era soltanto l’esasperazione della sofferenza, invocavo la morte, pur di non soffrire ancora.

Thomas: C’era qualcosa di meno egoistico in quella preghiera. Sei partita dal tuo desiderio di sollievo e ti sei buttata tra le braccia di Dio. Alla fine hai accettato di non essere sollevata dalla tua sofferenza perché c’era tuo figlio.

Anna: Si può desiderare di morire?

Thomas: Si deve amare la vita. Se uno vive sperando nella pienezza di vita oltre la morte, in certe circostanze può desiderare di raggiungere quello che lo aspetta di là della vita terrena. In genere si spera poco, come si crede poco. Qualche volta, all’inizio del mio cammino di monaco, anch’io ho pregato di morire per rifugiarmi in Dio, ma senza aver raggiunto quella speranza profonda e quella purezza d’intenzione che avrebbero giustificato tale preghiera. In altre parole: credevo nella vita eterna, desideravo vivere eternamente con Dio, ma avevo troppa paura della vita e della sofferenze che il vivere in questo mondo comporta. Desiderare di morire, in questo caso, sarebbe da vigliacchi.

Anna: Se è giunto il momento di morire, si può pregare Dio di guarirti?

Thomas: Si può sempre, come si può pregare di lasciare questa vita, purché sia la volontà di Dio. Durante la sua ultima malattia mia nonna pregava: “Dio caro, toglimi i peccati e portami con te”. Era implicito “Come tu vuoi”.

Anna: E nel Corano il profeta Maometto invita i fedeli a non desiderare mai la morte ma a pronunciare questa preghiera: “Signore, tienimi in vita finché la vita è un bene per me, e fammi morire se per me sarebbe meglio morire”. Come si fa a capire qual è la volontà di Dio?

Thomas: Non si tratta di capirla; si tratta di compierla. La volontà di Dio è sempre e ovunque per il nostro bene, per il bene di ognuno in rapporto con il bene di tutto l’Universo. Dio vuole bene all’universo; Dio vuole il nostro bene. È sempre questa volontà salvifica, universale ed efficace di Dio che dobbiamo compiere “come in cielo così in terra”.

Anna: Ma un cristiano non deve augurarsi la sofferenza per imitare il Cristo, per purificarsi? Anzi non ci sono stati santi che pregavano di ricevere la prova della sofferenza? Si può diventare santi anche senza soffrire atrocemente?

Thomas: Sí, senza soffrire atrocemente e senza fare la vittima. Alcuni santi si esprimevano in quel modo, ma non sono del tutto sicuro che il loro voler soffrire sia l’atteggiamento più conforme al Vangelo.

Anna: Scegliere di torturarsi, di fare penitenze, di portare il cilicio?

Thomas: Non voglio dire che quel tipo di santo sbagliava, solo che non è l’unico modello di santità. Meglio seguire l’esempio di santi che non cercavano di distruggere il corpo, quelli che vivevano con armonia, con equilibrio e con un senso di gratitudine per la vita e per la salute. Penso al beato Giovanni XXIII, l’esempio di un uomo che viveva in armonia con la sua natura, anche con la dimensione materiale della vita, ma aveva uno spirito di distacco, rendeva tutto a Dio e rendeva grazie di tutto. Quindi non tutti i santi sono chiamati a seguire la medesima strada né a vivere nella stessa maniera.

Anna: Perché non tutti hanno lo stesso karma, si direbbe in India.

Thomas: In termini biblici diremmo che non tutti hanno lo stesso carisma e non tutti hanno gli stessi vizi, per cui i rimedi saranno diversi. Il vizio è una malattia dell’anima e per guarirla bisogna praticare certe virtù. I santi praticano le virtù che servono alla loro santificazione, alla guarigione dei loro vizi.

Anna: In tutti questi anni mi sono sempre sentita dire dagli altri che dovevo considerarmi fortunata, perché le persone che soffrono sono più vicine a Dio. Ed io mi sono sempre chiesta: ”Se Dio non è vicino alle persone che soffrono?”. Se uno non sente questo sollievo interiore, questa presenza divina che ti dà la forza di continuare? I santi avevano la fede, per questo potevano superare tutte le afflizioni, tutte le prove. San Francesco non vedeva i suoi malanni. La fede ti dà la forza di andare avanti, altrimenti c’è soltanto la disperazione. Yogananda diceva che si può vivere con un paradiso interiore, dovunque andiamo, se riusciamo a vivere nella gioia spirituale che ci viene da un’assidua e profonda meditazione.

Thomas: Fai bene a credere poco ai discorsi consolatori. Hai acquisito un forte senso del valore della vita che sempre vale la pena di essere vissuta. Quanto al dolore, farei un discorso critico sul modo in cui la scienza medica lo gestisce. Si scopre ora che il dolore fisico e quello mentale ostacolano la guarigione. Togliendo il dolore, il sistema nervoso centrale e il sistema immunitario riescono a collaborare meglio e a vincere le malattie.

Anna: Il dolore, quando è intenso e prolungato, annichilisce la persona e le sue difese. Per questo, in genere, a una malattia ne subentra subito un’altra senza soluzioni di continuità. A volte mi capita di vivere per mesi con la sensazione di essere arrivata al capolinea. È come se davanti a me ci fosse un muro a sbarrarmi la strada. E in quei momenti non so se assecondare questa sensazione di fine oppure ribellarmi alla malattia, reagire. Mi chiedo: “ Cosa  mi sta succedendo? Sto vivendo la conclusione di una fase o è veramente arrivata la fine della vita?”. E spesso anche i sogni sembrano indicare l’incontro con la morte. Reale o metaforica? Allora, taglio tutti i ponti dietro di me. Vivo in un tunnel buio senza luce. Mi è accanto soltanto la disperazione. Soffoco, piango, prego: “Padre, aiutami a capire!”
   Quando le malattie sono così lunghe, dolorose, incomprensibili ai medici, refrattarie a ogni cura, anzi, che peggiorano con le cure, mi chiedo: Ma se mi ritirassi in un ashram per morire serenamente, invece di occuparmi di politica, di guerre, di stupri, di mafia? In India la vita sembra scorrere più naturalmente. Da ragazzi si pensa allo studio e alla formazione, poi al matrimonio e al lavoro, infine al ritiro e alla ricerca spirituale. Nella quarta fase dell’esistenza, che coincide con la vecchiaia, si sceglie la vita monastica. C’è una grande saggezza in questa suddivisione dei compiti e dei ruoli. Forse sono arrivata all’epilogo del terzo stadio della mia vita.

Thomas: Finché hai il tempo, devi vivere. Il tempo è dono di Dio; la vita è dono di Dio.

Anna: “Fin quando respiri la libera aria della terra, hai l’obbligo di servire con animo grato”, diceva Sri Yukteswar. Eppure la maggior parte delle persone vive ripiegata su se stessa, insensibile al dolore degli altri. Spesso non si chiede aiuto per timidezza, per non disturbare, per non apparire inopportuni o soltanto perché l’altro è disattento, avvolto su se stesso. La vera compassione, la vera empatia del bodhisattva è vivere con l’altro, vivere nell’altro, vivere la sua sofferenza. Direi che anche tra i religiosi questa capacità è estremamente rara. Chi pratica il Kriya Yoga dovrebbe aver affinato questa sensibilità, ma se non è abbastanza forte finisce per caricarsi sulle spalle i problemi degli altri senza essere in grado di aiutare nessuno. Qual è il segno della santità?

Thomas: Non parlerei di “segni”; parlerei degli esempi di verità e di virtù che ho visto accanto a me nel monastero e lungo la strada dei miei itinerari in India. In questi esempi Dio si rivela e m’invita alla fedeltà, alla trasparenza e all’attenzione verso i fratelli e le sorelle che camminano con me e che vogliono seguire il sentiero dei santi.

Anna: Dovresti anche guardare quelli che camminano dietro di te e che hanno bisogno di una mano. Si può essere talmente protesi verso la propria santità da guardare sempre in alto e ignorare coloro che in basso, su questa terra, sono nel fango, a piangere.

Thomas: Disse Yogananda: “Vivete per Dio solo. Rendete servizio a Lui solo. Amate solo Lui”. Era monaco Yogananda, e io, suo fratello minore nella vita monastica, cerco di praticare il suo consiglio. Tu stesso hai citato le parole di Rajneesh: “Se sei tu che vai a cercare qualcuno da aiutare, una cosa è certa: non sei la persona giusta per portare aiuto”. La capacità di “dare una mano” l’abbiamo tutti, ma ognuno la dà secondo la propria chiamata. Medito sui modelli di santità che le Scritture e la storia mi offrono, e cerco di imitarli seguendo la vita monastica e contemplativa alla quale Dio mi ha chiamato.

Anna: Yogananda un giorno viaggiando con i suoi discepoli chiese improvvisamente di fare una deviazione. Seguendo le sue indicazioni arrivarono in un posto dove viveva un uomo disperato. Yogananda era così in sintonia con l’universo da sentire il richiamo di dolore di quell’uomo.

Thomas: A volte ho fatto un’esperienza simile, che non è tanto eccezionale. Ad esempio, mi tocca di rado rispondere al telefono a Camaldoli. Qualche volta, passando davanti alla cabina telefonica, sento che devo rispondere e mi trovo in comunicazione con una persona sofferente che, per la grazia di Dio, posso aiutare.

Anna: Anche Giovanni Paolo II ha questa capacità di sentire la sofferenza degli altri. L’ho sperimentato di persona. Molti anni fa, in uno dei tanti periodi bui della mia vita, vivevo da nove mesi con un dolore continuo al cuore. Mi alzavo con il dolore, lavoravo con il dolore, mi addormentavo con il dolore, sognavo sogni dolorosi e mi svegliavo con le lacrime. Mi sembrava di impazzire e invano cercavo di concentrarmi sul lavoro. Un giorno un gruppo di colleghi fu ricevuto dal Pontefice nella canonica della Chiesa che si trova vicino alla sede Rai di via Teulada.
   Vivevo un periodo di grande scetticismo religioso, di grande diffidenza verso questo papa polacco, che giudicavo conservatore e integralista. Stavo male e stavo in piedi da più di un’ora, ero nervosa e irritata. Finalmente il papa arrivò e cominciò a stringere la mano ad ognuno di noi. Io ero alla fine del semicerchio. Mi limitai a fare un breve inchino porgendogli la mano; lui la strinse con forza e continuava a stringerla mentre stava già salutando il collega che era dopo di me. Sul momento non capii. Mi sembrò soltanto inspiegabile il suo comportamento. Più tardi mi resi conto che il dolore che mi aveva tormentato per nove mesi era scomparso. Non avevo fede, eppure lui aveva preso su di sé il mio dolore. Un’esperienza simile di essere sollevata dalla sofferenza l’avevo avuta pochi mesi prima accanto a Madre Teresa di Calcutta, ma era durata soltanto il tempo in cui ero rimasta vicino a lei in Chiesa. La mia opinione sul papa da quel giorno, ovviamente, cambiò. Ho capito che si può essere tradizionalisti e avere un grande carisma, essere santi e sbagliare in quanto uomini. Mi sarebbe piaciuto potergli dire: “Grazie, Padre”. Durante il Giubileo dei giornalisti l’ho voluto rivedere, anche se da lontano. Camminava a stento con il bastone sul palcoscenico della Sala Nervi, curvo, indomito. Dentro di lui s’intuiva una grande forza, un grande coraggio, una grande passione. E rivederlo così stanco e invecchiato, ma così consapevole del suo ruolo su questa terra, mi ha fatto una grande tenerezza, mi ha commosso.

Thomas: Sai come diceva Gesù a quelli che guariva: “La tua fede ti ha salvato”.

Anna: No, in quel periodo ero agnostica. In quel momento io di fede ne avevo zero.

Thomas: Avevi poca fede, come ne ho io, però la tua fede ti ha guarita. È stata la presenza di Dio in te, insieme con la presenza del papa come strumento di Dio, che ti ha dato questo sollievo, non perché tu stessi fisicamente meglio, ma perché avessi un segno prezioso di questa divina presenza in te. Questa è la meraviglia, questo è il vero dono che hai ricevuto con il miracolo del papa.

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