La
sofferenza è una prova?
Anna: Per gli esseri umani il
vero inferno e purgatorio sono su questa terra; la vita di tutti i giorni, con
le sue sofferenze quotidiane, grandi o piccole, è la nostra penitenza. Penso
alle stragi nel Ruanda o alla pulizia etnica in Bosnia. Cosa c’è di più
mostruoso delle camere a gas di Hitler? E c’è qualcosa di più atroce delle
stragi dell’11 settembre? E le tante guerre infinite, come quella siriana, dove
muoiono soprattutto bambini? Il nostro inferno e il nostro purgatorio sono qui,
non ho dubbi; nell’aldilà, se c’è qualcosa, non può essere che il Paradiso,
altrimenti c’è l’oblio, il sonno eterno.
Thomas: Ma questo non lo
sappiamo. Tutta la nostra vita si proietta oltre, verso un destino eterno che
dipende in parte dal modo in cui viviamo il positivo e il negativo nella nostra
vita presente.
Anna: E allora come
giustifichi la sofferenza? Perché ci sono persone che nascono ricche e altre
povere? Perché si nasce malati o sani?
Thomas: Non giustifico la
sofferenza né accetto la spiegazione facile e riduttiva della “reincarnazione”
che mi sembra chiudere le porte a un senso più profondo della vita e della
sofferenza. Un multimiliardario sarebbe stato un povero pezzente, mentre un
barbone della stazione Termini era un nababbo dell’India, avaro e spietato.
Troppo comoda la spiegazione. I veri induisti e buddhisti non parlano in modo
così banale. Fra loro, come fra noi, c’è chi usa le dottrine tradizionali come
spiegazioni di comodo, mentre per loro, come per noi, il discorso sulla
sofferenza è molto più complesso. A parte l’ipotesi di un karma che si propaga da una vita all’altra, induisti e buddhisti
cercano come noi di rendersi conto del male e della sofferenza, non come un
destino ineluttabile ma come un fattore misterioso in un progetto generale e
universale che è per il bene ultimo di tutti.
Non
nego il problema. Dico semplicemente che la spiegazione, sia quella degli indù,
sia quella della Bibbia, non può essere ridotta a una formula semplice. Tutte
le tradizioni sapienziali vedono l’inferno nel male che l’uomo fa e soffre qui
e ora, ma lo proiettano — e sono giustificati a proiettarlo — di là del
visibile e del momento presente. A prescindere dalla proiezione nell’aldilà, la
spiegazione induista e buddhista implica una visione globalmente positiva della
vita. Ecco la mia domanda: Il Tutto è buono o è cattivo?
Anna: Il Tutto è buono e
cattivo. Perché il bene ha in sé il male e il male ha in sé il bene. La Isha Upanishad, una delle più antiche e
venerate scritture indù, ha come idea centrale proprio la riconciliazione delle
coppie fondamentali di opposti.
Thomas: Non puoi citare la Isha Upanishad a sostegno di questo
relativismo “Il Tutto è buono e cattivo”. Tu dici questo per provocarmi.
Invece, voglio sentirti raccontare la tua esperienza di sofferenza. Voglio
sapere che cosa ti dà la speranza per meditare e per fare una pratica
spirituale.
Anna: La mia esperienza di
sofferenza mi ha portato alla ricerca della spiritualità. Per altri
l’esperienza della sofferenza può indurre al suicidio, all’omicidio, al
massacro. Quindi, se non credi nel karma,
come puoi giustificare tutto questo?
Thomas: Ripeto, non giustifico
niente. Facciamo una lettura spirituale, come delle Scritture, così anche delle
tue sofferenze.
Anna: Quali sofferenze
intendi? Del corpo o dell’anima? Mi hanno accompagnato entrambe, a volte
separatamente, a volte insieme. La malattia fisica si è spesso sommata a un
lutto o a un abbandono. Ho sempre avuto la sensazione di abitare una “casa”
fatiscente che necessita di una manutenzione continua. Non si fa in tempo a
riparare il tetto che crolla il pavimento, si puntella una parete e salta
l’impianto idraulico. E spesso fanno tilt
due o tre cose contemporaneamente e allora mi prende una sorta di
disperazione e d’impotenza e la voglia di abbandonare questa “casa”, che ha
troppe cicatrici e rattoppi, e forse non ha più senso spendere tanta energia e
tempo per tenerla in piedi. È cominciato tutto da piccola. Mia madre mi diceva
che bastava una nuvola in cielo per farmi ammalare.
Thomas: Qual è la tua prima
immagine di sofferenza?
Anna: Un tavolo operatorio.
Sulla mia testa una grande luce circolare. Poi appare un libro enorme che
comincia a girare e a ogni pagina compare il volto di un medico o di
un’infermiera. Poi una bicicletta passa sulla mia pancia. A quell’epoca non
esistevano gli anestetici moderni; c’era la maschera di etere che dava
un’arsura terribile. Per tre giorni mi proibirono di bere, la ferita era aperta
e così rimase per circa un mese. Urlavo per il dolore e per la sete e tiravo i
capelli a mia madre, non capivo perché fosse così crudele da negarmi l’acqua.
Lei mi passava un po’ di cotone bagnato sulle labbra riarse e mi diceva “Senti
i rumori? Stanno facendo dei lavori. L’acqua non c’è; torna fra tre giorni”.
Avevo sette anni ed era Natale.
Thomas: Non hai forse un
ricordo anteriore a questo?
Anna: È una sensazione di
paura, di angoscia, di pericolo, che mi accompagna da sempre e che a volte
riaffiora in modo sconvolgente nei miei sogni, ambientati tutti nella casa di
campagna dei nonni materni. Dovevo avere circa un anno. Sono nascosta sotto un
tavolo, da cui pende una larga tovaglia bianca, con un mio cuginetto, di un
anno più grande di me. Ad un certo punto si alza la tovaglia e noi vediamo due
enormi stivali neri, quelli di un ufficiale tedesco. Comunque, non so se sia un
sogno o una realtà. Per un certo periodo, quando ero piccola, ho vissuto
realmente nella casa dei nonni materni, che si trovava sulla linea del fronte
di Cassino; l’edificio era stato sequestrato da un comandante tedesco, che vi
aveva installato il suo quartiere generale. Dopo una decina di anni l’ufficiale
tedesco, si chiamava Karl, tornò a trovare mia nonna e le portò dei doni, quasi
per scusarsi di ciò che la guerra, voluta da altri, lo aveva costretto a fare,
violentando la vita di una semplice famiglia di contadini, che si erano
ritrovati senza casa, finiti in un vecchio rudere, e con poche cose da
mangiare, perché farina, polli e conigli servivano per il comando tedesco.
Thomas: È troppo verosimile
l’immagine, per essere stato un sogno. Non ho mai sentito un’impressione
infantile della guerra così vivida.
Anna: Ho vissuto sempre i
lunghi periodi di sofferenza, che hanno accompagnato la mia esistenza, come
un’atroce ingiustizia. Mi chiedevo perché proprio io dovessi penare tanto, cosa
avessi fatto di così terribile per essere punita.
Thomas: Come può la logica
della punizione entrare nella mente di una bambina? Eppure non sei rimasta
passiva; sin da bambina t’interrogavi sulla tua sofferenza, perché la
confrontavi con un bene assoluto che intuivi oltre l’orizzonte della tua
esperienza del bene e del male. Così hai potuto ribellarti alla sofferenza di
quel Natale passato in ospedale.
Anna: In tutti questi anni ho
pianto, spesso ho pregato Dio, pur non credendoci, o credendoci soltanto in
parte, a mio modo. Mi sono anche arrabbiata con lui. Gli urlavo: “Perché non mi
rispondi, perché devo soffrire così?”. Tutte queste mie imprecazioni o
invocazioni non hanno avuto mai una risposta. Ovviamente non intendo visioni,
ma qualcosa che ti nasce dentro. Vorrei sentirmi amata. Vorrei che mi
arrivassero onde di amore. Forse non sento nulla perché sono sorda, perché ho
il cuore bloccato, chiuso. Se anch’io sono figlia del Padre celeste, non
capisco perché non devo essere amata.
Thomas: Tu esigi l’amore
perché conosci l’amore.
Anna: Conosco l’amore umano,
che mi ha deluso, non l’amore divino. Ora cerco l’amore perfetto.
Thomas: Tutti noi
sperimentiamo l’amore umano, e amore vuol dire quella realtà che trascende il
meramente umano. Lo sappiamo che trascende; altrimenti ci limiteremmo ad una
successione di rapporti umani uno dopo l’altro, saremmo piuttosto indifferenti,
piuttosto piatti. Tu hai intuito la perfezione dell’amore, l’amore assoluto,
l’amore senza fine, l’amore eterno.
Anna: Per il quale bisogna
rinunciare all’amore umano, perché Dio risponde quando ami soltanto lui. Dio si
concede quando capisce che tu vuoi solo lui e soltanto lui. Certo non posso
pensare che Dio pretenda di essere amato quando noi ignoriamo gli altri. Questo
mi pare evidente. Perché uno dei primi comandamenti è: “Ama il prossimo tuo
come te stesso”.
Thomas: Quando amiamo il
prossimo, conosciamo Dio, e sappiamo di essere tutti membri di un solo corpo.
Anna: Questo concetto lo
esprime in modo molto bello Sri Aurobindo, uno dei grandi mistici indiani, nel
suo commento alla Isha Upanishad:
“Essendo Egli uno e indivisibile, lo Spirito è sempre Uno in tutti; la loro
molteplicità è un gioco della Sua coscienza cosmica”. E questo vedere tutte le
esistenze nel Sé e il Sé in tutte le esistenze è la chiave che ci può portare a
superare le divisioni e vivere nell’amore e nella solidarietà.[i] Non
mi hai spiegato il senso della sofferenza.
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