Un’etica
laica
Anna: Sono severa, è vero,
soprattutto nei miei confronti. Ho impostato la mia vita su un’etica rigorosa e
spesso questo nel lavoro non mi è stato d’aiuto. La morale dovrebbe guidare la
vita di ogni individuo, a maggior ragione quella di coloro che si pongono come
fiduciari di Dio, come interlocutori tra l’essere umano e il Padre Celeste. Se
i sacerdoti sono realmente uno strumento di congiunzione e di dialogo tra il
popolo e Dio, devono tendere verso la purezza e l’onestà, devono essere degli
esempi limpidi ai quali il peccatore può guardare per avere conforto lungo il
cammino spinoso della vita. È chiaro che posso accettare cadute più o meno
gravi fatte in buona fede; non posso giustificare un atteggiamento immorale di
fondo, un costume di vita basato sull’ipocrisia e la menzogna da chi predica
dal pulpito. Anche nell’antica Grecia erano le vergini, le profetesse, a
custodire i templi! Se ci si vota a Dio, lo si deve fare completamente, anima e
corpo, altrimenti si sceglie un’altra missione nella vita. Non è obbligatorio
fare i sacerdoti o le monache. Certo, la debolezza fa parte dell’essere umano,
ma allora un sacerdote non può dire: “Io rappresento Dio”, e dare lezioni di
moralità.
Thomas: Secondo te, Dio chiama
solo i perfetti, i puri, o chiama anche le persone che debbono fare un cammino
di purificazione e di perfezionamento?
Anna: Dio chiama tutti, ma non
tutti devono fare i sacerdoti. Quelli che hanno una forte vocazione, una forte
motivazione, per i quali il sacerdozio non è una scelta di comodo ma un cammino
spirituale, questi devono fare i sacerdoti! Perché rappresentano l’esempio, il
simbolo, la meta cui tutti noi poveri peccatori dobbiamo arrivare!
Thomas: Ma secondo te, dire:
“Solo i perfetti devono fare i sacerdoti”, è un’affermazione laica o
un’affermazione che fai perché cattolica?
Anna: Laica. E proprio perché sono laica pretendo la perfezione
da chi intende rappresentarmi di fronte al Signore dell’universo, al Padre
Celeste. La veste bianca, gialla, nera, o marrone che sia è un segno di
riconoscibilità, di verità. È evidente che non sto parlando soltanto dei
cattolici; sto parlando di tutti i religiosi. Per esempio, durante uno dei miei
viaggi in India, sono rimasta sconcertata dal comportamento di un monaco
buddhista.
Mi ero fermata a Bodh-Gaya, dove è venerato
l’albero sotto il quale Gautama Siddharta ottenne l’illuminazione nel 528
avanti Cristo. Ricordo una bella immagine, alcune monache buddhiste
raccoglievano con umile devozione tutta l’erba cresciuta tra gli intarsi del
muro. Riuscii a portarmi a casa una foglia, che ora è incorniciata, accanto ad
altre immagini del Buddha, nella mia camera da letto. Sono entrata nel tempio,
dove in quel momento per fortuna non c’era nessun turista, per una breve
meditazione. E quando sono uscita un monaco si è avvicinato chiedendomi come
mai meditassi e dove alloggiassi. Poi mi ha portato a visitare l’ashram, mi ha
offerto del tè nella sua stanza e, prima di salutarmi, mi ha detto: “Scrivimi,
ti raggiungerò a Varanasi; faremo un po’ del viaggio insieme”. Forse ho
soltanto male interpretato le sue parole gentili, ma il suo sguardo e i suoi
gesti sembravano confermare i miei dubbi. Ovviamente, mi sono ben guardata da
comunicargli i miei spostamenti successivi. Dagli uomini comuni io non pretendo
l’ascetismo, siamo tutti fragili creature, ma da chi fa meditazione da
trent’anni non accetto un comportamento quanto meno equivoco.
Non avrei accettato quella proposta nemmeno
da un turista di passaggio. Viaggio sempre da sola e, pertanto, seguo delle
elementari regole di prudenza. Non giro di notte e non frequento locali
notturni, che d’altra parte non m’interessano, mi fido soltanto delle persone
che conosco o che m’ispirano fiducia, per spostarmi e per visitare musei e
templi utilizzo il taxi. Se avessi fatto la scelta di diventare monaca a
vent’anni e poi a quaranta avessi scoperto che per me era troppo pesante, che
altre esperienze premevano, c’erano soltanto due possibilità: tentare di
sublimare il desiderio sessuale concentrandomi sulla preghiera e sulla
meditazione, perché anche per i monaci buddhisti ci sono i voti di castità,
povertà, umiltà, oppure lasciare l’abito ocra ed entrare nella vita, con tutti
i rischi che questo comporta.
Thomas: Tu pretendi il
massimo.
Anna: L’ho già detto, pretendo
il massimo anche da me.
Thomas: Bene. Non ammetti il
progetto di crescita di una persona.
Anna: Non posso tollerare che
un sacerdote si faccia trovare in una casa squillo insieme a due prostitute,
com’è accaduto a Roma, perché era un habitué. È come per tanti matrimoni. Non
si sfasciano per opportunismo. Se questo sacerdote non fosse stato scoperto in
quella casa squillo dai carabinieri, che hanno fatto rapporto al Vicariato,
nessuno ne avrebbe mai saputo niente, tranne forse il suo confessore, al quale
lui avrebbe continuato a dire per chissà quanto tempo: “Padre, ho peccato con
una donna!”, forse senza aggiungere “prostituta” e forse omettendo il
particolare che lo faceva abitualmente con due donne contemporaneamente. O come
è accaduto in provincia di Padova dove un parroco organizzava orge sadomaso in
canonica. E’ stata una delle sue amanti a denunciarlo, per gelosia. In questo
caso è stato subito sospeso a divinis.
Thomas: Di tale comportamento
posso sentire orrore, ma dell’uomo che pecca devo sentire compassione. Ciò non
significa offrirgli coperture. Troppi superiori ecclesiastici preferiscono
tollerare queste situazioni, sgridare il prete sbandato e mandarlo in vacanza o
a seguire un corso di studio o a fare un ritiro a Camaldoli. Tutto per “evitare
lo scandalo”. Questa situazione d’ipocrisia impedisce all’uomo di guardarsi
nello specchio e dire con onestà: “Ho fallito in questo cammino. Devo uscire.
Vado dal mio vescovo e dico: “Non ce la faccio più”. Se dovesse farlo,
rischierebbe di finire sul lastrico, alla fame.
Anna: Allora mi dai ragione!
Molte vocazioni si reggono su altri presupposti che non sono certo spirituali,
ma di convenienza.
Thomas: Conosco personalmente
qualche caso anche recente di sacerdoti che hanno sofferto conseguenze pesanti
per essere usciti dal clero, coerenti con la loro coscienza.
Anna: Avranno avuto problemi.
Fa parte della nuova esperienza. Anch’io quando sono stata disoccupata per
cinque anni ho sofferto molto. Dovevo anche mantenere un figlio. È l’esperienza
della vita che fanno tutti i poveri mortali, quindi anche un sacerdote può
sempre trovare qualcosa di onesto da fare.
Thomas: “Se uno vuole può”.
Questo volontarismo è troppo rigido, troppo rigorista.
Anna: Io credo nella volontà.
Non dite anche voi: “Aiutati che Dio ti aiuta?”. L’amore e la volontà sono due
forze potentissime.
Thomas: Ho sempre creduto
nella grazia di Dio che fa superare gli ostacoli, non li toglie. Da quando sono
bambino, sento questo discorso dalle donne, da mia madre, dalle mie maestre,
dalle mie amiche, e ora da te: “Se vuoi, puoi”. Le donne possono essere severe,
come non mai gli uomini. Ecco perché è sbagliato, secondo me, chiamarvi “il
gentil sesso”!
Anna: Non è severità. Dentro
di noi c’è una volontà, che è volontà divina. Perché bisogna scegliere
l’atteggiamento perdente, rinunciatario? Yogananda diceva: “Siete figli di Dio,
non comportatevi come mendicanti”.
Thomas: Dentro di noi c’è la
volontà umana, libera e responsabile ma debole. Gesù ci ha insegnato a non
giudicare mai nessuno e a pregare il nostro Padre: “Rimetti a noi i nostri
debiti, come noi li rimettiamo ai nostri debitori”. L’unico nostro modello è
Gesù, l’Agnello, il “mite e umile di cuore”.
Anna: Che però cacciava i
mercanti dal tempio quando era il caso. Io amo i condottieri, i guerrieri,
coloro che combattono! Non mi piacciono quelli che stanno in retroguardia, a
guardare gli altri che si fanno massacrare. Sono opportunisti.
Thomas: Esistono anche i non
violenti. Se la coscienza non permette loro di prendere le armi?
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